“La rabbia di una madre nei confronti di una società che la vuole felice di esserlo. Senza offrirle alcun sostegno"
Lontana anni luce da una visione edulcorata della maternità, la pellicola di Marielle Heller è un viaggio attraverso il potere trasformativo dell’istintualità.
Cosa c’è di bello nell’essere madri? Niente. Niente di bello per la madre, protagonista di Nightbitch.
La madre non ha un nome, è solo la madre, o meglio una madre: fuori forma, la faccia stanca, i capelli crespi, i vestiti indossati senza cura, le notti di sonno mai più recuperato, le giornate tutte uguali, come in un girone infernale il tempo scandito dai french toast rosolati nel burro.
Lasciato il lavoro in una galleria d’arte, la madre è imprigionata in un tempo fermo e circolare di giornate ripetitive uguali a loro stesse e vaga con il suo bambino in quartieri residenziali vuoti e patetiche attività per bambini e la spesa, e la noia, e la solitudine.
“Vorrei essere contenta ma mi sento come bloccata in una prigione creata da me in cui mi tormento; ho la sensazione che le norme sociali, gli stereotipi di genere e la semplice biologia mi abbiano costretta a diventare una persona che non riconosco e sono arrabbiata sempre…. E ho paura che non sarò mai più brillante o felice o magra, mai più nella vita, Mai più...”
Perché, “quando entri in adolescenza, senti un fuoco dentro, lo alimenti e te ne prendi cura, non lo lasci divampare perché non si addice ad una ragazza, lo tieni segreto, lo lasci ardere, è da quel fuoco che puoi far nascere, ma che ne è di quel fuoco?”
E da questa consapevolezza, dal poter dare voce alla sua frustrazione che la madre, giocando con il suo bambino, comincia a percepire il cambiamento: peli, coda, capezzoli in più, un corpo istintivo e che parla libero; il corpo di un cane, di un mammifero.
Così il tempo si rimette in movimento, tra corse notturne, giochi liberi e selvaggi, rapporti riscoperti con altre donne e la possibilità di poter toccare con mano tutta la passione della maternità, compresi il rimpianto e la rabbia per ciò che è irrimediabilmente cambiato, la rabbia nei confronti di una società che pretende il brillio negli occhi delle donne che diventano madri, senza dare loro alcun sostegno e che non tollera alcun malcontento: madre sii felice di essere madre ma, in fondo, non stai facendo niente di che perché è ciò a cui sei biologicamente predestinata, se non dormi o se sei infelice è colpa tua: non ti sei organizzata, non sei una brava madre.
Il film dà voce a quei pensieri sussurrati o accennati con vergogna e colpa persino nelle stanze di terapia, di aver immaginato che fosse tutto diverso, di non sopportare il pianto dei propri figli, la noia delle giornate tutte uguali (“ma avevo aspettato tutto questo tempo per trascorrerlo con il mio bambino e invece mi annoio a morte a giocare con lui"), la stanchezza, il sonno perduto e il tempo personale annullato, fino al desiderio colpevole di voler tornare indietro o di desiderare che quel figlio non ci sia,
Ma quando tutto questo invece si può dire allora la madre riscopre la sua forza, il fuoco sotto la cenere. E se diventare madre non fosse una perdita, un’amputazione irreversibile?
La psicoanalista junghiana Clarissa Pinkola Estés nel suo saggio Donne che corrono con i lupi (1992), afferma che “i territori spirituali della donna selvaggia sono stati saccheggiati nel corso della storia…. I cicli naturali costretti a diventare ritmi innaturali per compiacere gli altri”, la separazione dalla natura selvaggia della donna fa sì che la personalità diventi “povera, sottile, pallida, spettrale” e si aggiri falsamente e sorridente e felice, come la protagonista all’inizio del film, tra la ludoteca e il supermercato.
Quando la madre riscopre la “donna selvaggia” che è “forte come un lupo”, inizia ad amare il proprio corpo e dice quello che sente e può contattare sé stessa e sentire il suo bambino, e comincia a ridere e a giocare e a recuperare la parte più autentica di sé che è quella della lupa, della cagna, dell’istinto.
Così la madre può ritrovare la funzione creativa della psiche e tornare a dipingere, meglio di prima, attingendo alla sua esperienza, alla sua complessità di essere umano, e alla propria forza istintuale, e tutto cambia perché forse diventare madre non è perdere una parte di sé ma trasformarla, riscoprendo quello che forse pure prima era celato, occultato, negato: il fuoco.