Cronaca di un incontro annunciato con la meglio gioventù del liceo Visconti
Ghetto Chic, massicci!
La linea di confine, me capisci zì?
E se il ghetto è qui puoi confonderti
Ghetto Chic
Colle der Fomento
Che farem senza l’Edipo?
C’è allerta meteo nei cieli della Capitale. E piove forte su piazza del Collegio Romano. Il tassista è felice. Poca gente per strada. Oggi stanno tutti a casa. E la piazza è vuota.
Il caffè Doria, luminoso e dorato, ci accoglie per un caffè. Ultimo avamposto della civiltà, prima di immergerci nella barbarie un po’ sacrilega dell’occupazione di un liceo classico tra i più centrali della Capitale: tra il Commissariato di Polizia “Trevi”, la biblioteca del Senato e la chiesa di Sant’Ignazio di Loyola.
Il Visconti è la scuola che ha Piazza Colonna come cortile sul retro. Non hanno letto La microfisica del potere ma si vede dalle espressioni dei volti che qui lo sanno bene.
Guardandosi intorno, “ovunque grandi insiemi, megamacchine tecnologiche, organiche, istituzionali, ovunque dello strutturale e del simbolico che ci attraversano da parte a parte; ovunque le famiglie coi loro edipi, gli Stati con le loro burocrazie, i partiti con i loro apparati, i gruppi-oggetto con le loro stereotipie, il potere con le sue tecnologie” (Deleuze e Guattari, 1972). C’è l’hard core del concetto di centralità e gestione: edifici delle istituzioni, ministeri e uffici dove si regola la cosa pubblica. Non stupisce che i corpi disobbedienti di ragazzi e ragazze preoccupino le colonne del Messaggero.
Non è poca cosa occupare il Visconti.
Questi ragazzi e ragazze ci hanno invitato alla loro occupazione. Nome dell’incontro: “Una chiacchierata con la psicanalisi”.
“Psicanalisi”: useremo anche noi questa parola e non psicoanalisi – come faceva Fachinelli. Psicanalisi che si siede e chiacchiera. È ciò che fa ognuno di noi nella sua stanza d’analisi. Silenzi compresi. Uno scambio alla buona, senza costrutti e interessi. Ma è con le chiacchiere che nasce l’incontro. E dall’incontro nasce sempre qualcosa che spinge a pensare.
Appena entrati l’impressione è che ci stessero aspettando. Arriviamo di corsa, dopo aver attraversato correndo la piazza, sotto la pioggia e senza ombrelli, come quando a occupare licei eravamo noi, una ragazzina e un ragazzino come ci avrebbe chiamato Marco Lombardo Radice. Ci accoglie il gruppo del portone d’ingresso, come si addice ad ogni occupazione. Chi sta seduto sui banchi portati vicino al portone, chi in piedi, chi sorride e chi è molto serio.
È un salto dentro un flusso pieno di simboli, l’ingresso al Visconti. Che però oggi sono stati risignificati da un mondo fatto di ragazzi e ragazze. È bellissimo il Visconti, quel cortile del Cinquecento, immaginiamo Galileo e i gesuiti in formazione, ma non c’è Galileo e anche Ignazio di Loyola questa mattina è rimasto a casa. Solo corpi giovani. “Nessun grande intendo” avrebbe detto il giovane Holden descrivendo alla sorella il campo di Segale dove avrebbe voluto stare tutta la vita. “E non debbo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltare fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare” (Salinger 1951).
Ma qui non c’è dirupo. Ci sono loro indaffarati: fanno cose all’inizio non capiamo. Sembrano organizzati, lo sono, si muovono da un posto all’altro, ci accompagnano in un’aula, gentili e subito sorridenti. Giulia è la prima a parlare. Dice che lei seguirà la “chiacchierata” perché le piace la psicanalisi visto che un giorno farà la psichiatra. È decisa. Qualcuno entra nell’aula vuota, qualcuno sistema le sedie. Non chiedono nulla. Va da sé.
È evidente che l’occupazione è uno snodo, a partire dal quale la storia non cessa di ricominciare, per produrre nuove intensità e nuovi oggetti. È ovvio che ogni occupazione metta in crisi gli adulti. Almeno per noi che veniamo da fuori o forse stiamo entrando nel Fuori, sembrerebbe proprio così. Bisogna fare attenzione però, ci diciamo mentre aspettiamo, nel riportare le occupazioni al maggio ’68, a non volere territorializzare l’occupazione. Le occupazioni a loro volta sono una singolarità. Per noi che abbiamo occupato all’inizio degli anni Novanta, il riferimento al maggio del ’68 era riferimento ad un pensiero impossibile, perché eravamo ancora dentro quella galassia.
Anche le occupazioni attuali sono qualcosa in divenire, che si iscriverà e si registrerà come desiderio. L’occupazione che abbiamo visto era full booked, affollata nonostante la strillata emergenza meteo. Il tutto con buona pace del Messaggero, che ogni giorno parla di questo “Visconti occupato” per dire che gli studenti sono pochi, sono divisi, stanno nelle classi con i professori che resistono.
D’altra parte, la politica e il discorso dei grandi non possono che linearizzare questi avvenimenti, magari cercando di svalutarli attraverso una qualche forma di retorica. In questo i giornali sono maestri.
Invece la posizione interessante è un’altra. Occorre ascoltare un’occupazione e l’effetto di verità che va costruendo. Occorre visualizzare che gli studenti e le studentesse siano la verità che ci interessa. E che qui parlino. Il problema è che questo ci dà molto fastidio. Non possiamo neanche colonizzare il loro discorso attraverso la nostra grammatica del disagio giovanile. Sarebbe un altro modo di parlare al posto loro. Forse hanno invitato gli psicologi perché parlino loro del loro disagio? Non ci pensano proprio. Al contrario. Hanno invitato due psicanalisti e ci vogliono chiacchierare.
Proprio perché questi giovani parlano, i segni del potere si veicolano mentre i loro effetti si diffondono. Con l’occupazione ognuno prende il suo posto: i ragazzi, i genitori, la Preside, la Questura, i giornali. I turisti nel caffè Doria. Perfino taxi. Gli psicanalisti in chiacchiere. Grammatica generale di una tecnologia di potere, direbbe un teorico degli anni Sessanta.
Ragazze e ragazzi mettono al centro il desiderio. Finalmente fuori dal teatrino famigliare, hanno creato un programma alternativo alle ore di lezioni ministeriali. È bellissimo come basti questo a farci sentire a disagio nei loro confronti.
Eppure, non è tanto importante ciò che rappresentano, ma ciò che producono. Allo stesso modo, non ci siamo preparati ad una lezione magistrale sulla psicanalisi. Ci basta una chiacchierata che produca effetti.
Intanto l’aula si va riempiendo. Siamo circa una cinquantina, sedie messe in circolo, qualcuno in piedi. Non state in piedi, cerchiamo delle sedie. Entrano ed escono dall’aula e in pochi minuti è tutto sistemato.
Uno dei ragazzi, Tommaso, ci presenta. Sintetico: “Loro sono della SPI, la società di psicanalisi”. Abbiamo i loro sguardi, un’attenzione gentile, che non è quella della classe, non è forse neanche un’attenzione. Stiamo lì tutti insieme. Con i due psicanalisti della SPI.
La chiacchierata è durata più di due ore. Siamo partiti dall’Edipo, il romanzo di famiglia…ma anche dallo strutturalismo, ovvero…. dai posizionamenti in classe. Ai primi banchi sempre i secchioni, ma a volte no. Serve una casella vuota. Cos’è il desiderio della madre? Il fallo è il pene? Cos’è il fallo della madre? Perché poi il nome del padre? I nomi, tutti i nomi del mondo, ma poi perché il padre e non un’altra madre? Una bicicletta? Un libro? Una telefonata ad un’amica? Una serie su Netflix! Abbiamo parlato di post-strutturalismo, nella versione Deleuze, L’Edipo che organizza i flussi e traduce in rappresentazioni. Somiglia a Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer? Genio e commozione. Da grande farò la filosofa, ma non a Roma. E poi di pulsione, di desiderio. Cosa è quella fissazione che si soddisfa di noi? Abbiamo discusso della tragedia di Antigone, che si era fissata con ‘sta storia del fratello, pensato alla mamma di Woody Allen sui cieli di Manhattan. E anche a come la cosa più difficile del mondo sia pensare il rapporto tra linguaggio e corpo, ma concluso, l’assemblea era infine concorde, che non c’è altro proprio nient’altro da pensare nella vita che a quel rapporto li.
Finché una studentessa con i capelli rossi ha condiviso un pensiero gigantesco. Il vento freddo di quella mattinata di pioggia entra nell’aula e anche Ilaria Cucchi, nella stanza accanto rimane un momento interdetta.
Ma se l’inconscio è causa di tutto allora noi non scegliamo niente?
Man mano che si chiacchierava uscivano concetti “classici” della psicanalisi. I sintomi, i lapsus, vi ricordate quello della Clerici? Io amo il cazzo! Ma voleva dire il calcio?
Finché non entra nell’aula il servizio d’ordine a tagliare il flusso. Fine. Catena di montaggio interrotta. Ma forse no. Va bene così. C’è ancora qualcosa, voglia di continuare a chiacchierare. Funzionano così le chiacchierate. Ci alziamo dalle sedie e ci spostiamo fuori. Piove nel cortile del Visconti.
Non ci avete detto dei sogni, continuano a chiederci. E qui qualcosa fa click. “Wow!”, pensiamo come Andy Wharol. Perché alla fine, due ragazze vogliono raccontare i loro sogni.
Intanto Leila, alta, capelli lunghi, fa foto che poi metterà sulla pagina Instagram. Intorno studentesse e studenti armeggiano, fanno cose, parlano, “deterritorializzano” la scuola.
Ed è qui che interviene Giulia, organizzatrice di flussi di produzione. Vi inviteremo alla nostra assemblea. Ne parliamo con Tommaso, il ragazzo che ci aveva presentati. In effetti, ci sono ancora i sogni da raccontare e tanto altro. Perché loro lo sanno che funzionano così gli incontri. Lasciano sempre un “resto” ancora da esplorare, di modo che si possa continuare ad incontrarsi.
Nel frattempo in un altro palazzo di Via del Tritone già si preparava il titolo del giornale di giovedì, giorno dello sgombero del Visconti occupato. “Visconti, dopo le divisioni tra studenti e professori termina l’occupazione flop”.
Ogni occupazione è un flop, per fortuna. Sarebbe una contraddizione, quasi un insulto dire che un’occupazione è riuscita. La vita d’altronde è un flop. È un flop il sesso. L’amore? Il più grande dei flop, probabilmente.
Ce ne torniamo nelle nostre stanze d’analisi con la speranza di avere fatto flop come queste ragazze e questi ragazzi del Visconti, augurando loro di celebrare ogni volta inevitabili e fantastici fallimenti, di resistere quanto più possibile alla tentazione delle cose riuscite bene, del successo, “perché in determinate circostanze fallire, perdere, dimenticare, disfare, annullare, sfigurare, non sapere, possono essere modi di stare al mondo più creativi, più collaborativi e più sorprendenti” (Halberstam, 2021).