Nell’indagare “la follia” nei legami d’amore, gli eccessi, gli sconfinamenti, le necessità di dominio, talora reciproco, non possiamo non tener conto di come tali rapporti prendano forma in una comunità di uomini e di donne sempre più attraversati dalla complessità delle logiche del riconoscimento reciproco, compreso il negativo del legame. Tali logiche, devono poter contenere la laboriosità di lavoro psichico insita nel vivere la condizione di essere uomini e donne in un mondo che ha messo in dialogo profondo, talora conflittuale, sessualità e genere, maschile e femminile, paterno e materno.
Una pluralizzazione del soggetto psichico che ha guadagnato in termini di possibilità di espressione di sé, ma ha perso forse in sicurezza, stabilità. Sullo sfondo permane quella cultura patriarcale da cui tentiamo di prendere le distanze ma che in ogni caso ha forgiato il nostro immaginario, ha nutrito le nostre culture. Vorrei ricordare con voi l’interessante riflessione di Giulia Sissa, la quale nel suo libro L’errore di Aristotele (2023) scrive nell'introduzione del suo lavoro: “Ad Atene si assiste al primo incontro mancato fra il popolo e le donne”. Si tratta, infatti, di una cultura politica che si basa su un concetto di uguaglianza legata a “un'identità qualitativa soggiacente, che sia corporea, morale o sociale” che riduce l'uguaglianza “all'omogeneità di un gruppo chiuso”. La qualità soggiacente, il coraggio, è “la migliore approssimazione dell'ideale greco di andreia, ossia la virilità e il maschilismo”. Andreia deriva da aner ovvero uomo – da intendersi come essere umano di sesso maschile in opposizione alla donna. Nel suo lavoro, l'autrice sottolinea a più riprese lo strettissimo legame che intercorre fra governo democratico e andreia. Per Aristotele è un tratto che caratterizza esclusivamente i corpi maschili; ne consegue che le donne, non essendone dotate per natura, non possono possedere le capacità che ne derivano e dunque la facoltà di deliberare e di prendere una decisione. Questa concezione della donna – ed è questo il punto centrale della ricerca di Sissa – è alla base della costituzione della demokratia; costituzione che, senza remore, esclude le donne dalla gestione del potere pubblico.
Molti secoli dopo, in una temperie culturale diversa, così si esprimerà Winnicott: “Se il ruolo della madre non è stato veramente riconosciuto, è inevitabile che resti un vago timore della dipendenza. In alcuni casi questo timore si trasformerà in paura della donna in generale, o di una donna in particolare, in altri casi assumerà aspetti meno immediatamente riconoscibili, ma resterà costante la paura di essere dominati. Sfortunatamente la paura di essere dominati non basta ad aiutare i gruppi di persone a evitare effettivamente di esserlo; al contrario li induce ad accettare una dominazione specifica, ovvero scelta.” (Winnicott, 1990, pp. 127-128).
È difficile di fronte alle notizie che quotidianamente ci giungono su gravi delitti nei confronti delle donne quali abusi, stupri, assassini, non oscillare drasticamente e con convinzione emotiva in una polarizzazione di genere e attribuire al genere maschile, tout court, la responsabilità del male che le donne patiscono in molte situazioni. Le conoscenze di cui disponiamo, il laboratorio di concetti e strumenti così indispensabili per comprendere l’umano è costituito per me dalla psicoanalisi, dalla mia pratica di psicoanalista. Una voce, quella psicoanalitica dunque, attenta alla singolarità di ogni soggetto umano, inscritto in una nuova storia individuale che lo immette, fin dal concepimento nell’universo degli investimenti profondi di chi lo ha generato.
Interessati alla storia e alla genealogia di ogni forma di vita psichica, dobbiamo fare lo sforzo di evitare di pensare a uomini e donne in termini di categorie universali, al contrario, dobbiamo dotarci di un punto di vista in cui concepire uomini e donne uno ad uno, a ciascuno dei quali offrire l’opportunità di essere conosciuti e riconosciuti nella propria infinita singolarità. Oggi, pensiamo gli esseri umani come organismi viventi ricchi di relazioni con esiti non immediatamente prevedibili, sistemi autopoietici (Maturana & Varela, 1980) in grado di generare da sé la propria organizzazione in relazione ad un ambiente con il quale dialogare in termini di identificazioni, collisioni, fluttuazioni, collusioni. Una psiche che può rivelarci la complessità dei livelli in gioco, al di là dei consueti schemi, in una concettualizzazione più aperta al senso e alla storia per incontrare infine, l’inaspettato.
Per tali motivi, penso, che una occasione come quella odierna, possa costituire uno spazio idoneo a riflettere e ricercare su quali siano le condizioni che consentano ad ogni essere umano di incontrare e tollerare l’altro da sé. Così come mi appare sempre più urgente, tentare di comprendere il fallimento nel riconoscimento dell’all’altro da sé i cui esiti come sappiamo possono essere catastrofici. Vorrei inoltrarmi nella traccia di ricerca che tenterò di esplorare, attraverso le parole di Diego, un giovane uomo preda in taluni momenti delle tenebre della gelosia e di una rabbia pervasiva, egli affermava: “Se io sono in Lei, (la sua compagna), io e Lei siamo un’unica cosa, Lei allora non può andare via, lasciarmi e portare via con sè la mia vita, i miei unici momenti di vita. In quei momenti (quando la compagna minaccia di separarsi) io fantastico di farla fuori, farla scomparire, così non perderò la mia vita, anzi me la riprenderò perché non soffrirò più”! Che cosa sentiva di perdere Diego, perdendo il suo oggetto d’amore? Sentiva di perdere se stesso, una parte di sé persa e confusa nell’altro. Un’esperienza psichica intollerabile che poteva contrastare nella fantasia folle (ancora il simbolico prevaleva) di eliminare l’altro e riappropriarsi di un frammento di vita psichica che non poteva lasciare andare, nel separarsi da Lei avrebbe perso anche se stesso.
Siamo consapevoli che per accedere al legame e nascere alla vita psichica il soggetto deve affrontare alcune esigenze di lavoro psichico imposte dall’incontro con l’altro e con gli altri o, in altre parole, “dall’incontro con la soggettività dell’oggetto”.
La nozione di esigenza di lavoro psichico imposta dalla soggettività dell’oggetto si colloca al centro di una delle possibilità più significative di comprendere l’origine e lo sviluppo dei legami umani (Kaes, 2001).
È necessario continuare a porre interrogativi attraverso i quali provare ad esplorare lo spazio del legame ed in modo più specifico dei legami d’amore; quella misteriosa e intima forma di vita così potente ed esclusiva, al fine di comprendere sempre più in profondità i meccanismi del dominio, del possesso e della sottomissione nelle relazioni tra uomini e donne. Le strutture di potere che contraddistinguono le relazioni di genere, omo ed eterosessuali come risposta fondamentale all’intollerabile esperienza di separatezza e incontrollabilità degli oggetti d’amore. Una distorsione patologica del legame d’amore che prende forma a partire dal crollo dello spazio psichico tra sé e l’altro. Il fine interscambio (Winnicott, 1990, p. 202), l’autentico piacere che ne deriva e che consente al rapporto tra due persone di realizzarsi, viene a mancare. Il dominio e il possesso dell’altro, divengono, l’unica forma di legame vivibile: un’alterazione, deformazione, della vita amorosa che può condurre a trasformare l’originario amore in rabbia e odio tirannico verso chi ci fa soffrire. Il bisogno di rintracciare nell’intera realtà (e cioè negli altri) solo un riflesso del proprio sé, è il seme del dominio (Benjamin, 2006). Più l’altro è dominato, soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano dotato di una propria vita psichica. Tale pericolosa “indipendenza”, deve poter essere controllata in una spirale di violenza che non può riconoscere all’altro la funzione di limite e di confine. La rabbia, il bisogno di vendetta, il bisogno che si ripari a qualcosa di inconcepibile, che si cancelli ciò che è sentito provenire dall’altro come una terribile offesa, dovrà allora essere cancellata con qualunque mezzo. Una coazione incoercibile che non dà pace a coloro che sentono di aver subito una profonda umiliazione; essere stati esposti allo scacco dell’altro in grado di annullare l’unica forma di vita psichica che dà ragione al senso stesso della vita. Cancellare fisicamente “il nemico” è un modo di cancellare in lui il potere sulla nostra vita. Dobbiamo tenere a mente, del resto, che il fallimento del riconoscimento, dello spazio in cui possano esistere sia il sé che l’altro, fa parte della vita, così come fa parte della vita il costante lavorio di riparazione psichica volto a ricostituire tale spazio. La questione paradossale in ogni legame d’amore è il bisogno di riconoscimento e al contempo di indipendenza, sperimentiamo che l’altro soggetto è fuori dal nostro controllo onnipotente e contemporaneamente ne abbiamo un bisogno estremo.
In altri termini, dobbiamo continuare a chiederci: qual è il rapporto tra desiderio e riconoscimento, e come avviene che il costituirsi del soggetto comporti una relazione radicale e costitutiva con l’altro? (Butler, 1999) e quali sono le condizioni che ne determinano il fallimento? Dobbiamo immaginare una “lotta” aperta per il riconoscimento tra uomini e donne, e continuare a chiederci come imparare a fare i conti, cioè tollerare, la differenza.
Ora, in correlazione ai quesiti sinora posti, non possiamo eluderne un altro, altrettanto doloroso, che rappresenta l’altra faccia delle logiche di dominio: perché alcune donne non riescono a riconoscere l’oggetto cattivo1? Perché alcune donne hanno il bisogno incoercibile di negare l’esistenza “dell’oggetto cattivo” mettendo a repentaglio, in alcuni frangenti, anche la propria vita? Perché queste donne non sono in grado di dotarsi di alcuna funzione protettiva? Sembra talora, tale necessità, più vitale della vita stessa. Negare l’esistenza dell’oggetto cattivo che non può essere riconosciuto come tale, ha origini remote nella storia del soggetto, storia che vincola alcune donne ad un accecamento psichico. Del resto, se lo sguardo dell’altro non ha “riconosciuto” e non è stato interiorizzato come fonte di protezione, è molto difficile riconoscersi e riconoscere!
L’amore, nelle sue varie forme, realizzazioni, illusioni e fallimenti, come Freud stesso ha compreso, è una delle principali cause della sofferenza e delle inquietudini umane ed è uno dei motivi che spesso conduce uomini e donne a chiedere aiuto ad uno psicoanalista.
Amare un altro essere umano comporta dei profondi rischi per la mente, l’odio può esserne un contrappunto inevitabile. A volte, la passione amorosa può trasformarsi in un odio intenso e in una sete di vendetta che, nei casi più drammatici, è alla base di crimini violenti.
Nel volume della sua autobiografia Russell scriveva: “Ho cercato l’amore da principio, perché l’amore conduce all’estasi, in seguito, ho cercato l’amore perché solleva dal peso della solitudine, solitudine nella quale è caduto l’uomo (…) e non vede che un abisso senza fondo, gelido e vuoto. Infine, ho cercato l’amore perché, nel legame amoroso, ho avuto una visione, una sorta di immagine mistica, che prefigura il cielo come i santi e i poeti lo hanno immaginato” (Russell, 1967, p.3).
Continuiamo ad interrogarci sulle possibilità di dialogo tra i sessi in relazione al desiderio e alle forme che esso assume in questa fase storica. L’espressione del desiderio in questo periodo storico si è palesata in tutta la sua complessità. Esso, assume forme in cui le traiettorie tra investimento sessuale, genere, orientamento si divaricano, si pluralizzano. È rilevante, dal mio punto di vista, tenere a mente che il “disagio del sessuale” o le sue metamorfosi, sembrano muoversi lungo polarità apparentemente agli antipodi: da una parte osserviamo nella clinica contemporanea la caduta del desiderio che sovente conduce al disinvestimento della dimensione erotica. Giovani uomini e giovani donne, hanno sempre più timore dell’intimità che lega gli uni agli altri; dall’altra osserviamo l’espressione di un desiderio che nella ricerca del piacere insegue traiettorie che scompongono e pluralizzano il soggetto in una dimensione vorticosa, in cui l’importanza dell’oggetto attraverso il quale è ottenuto il piacere si attenua, fino a scomparire. Talora, diviene prioritaria la ricerca di un sentimento della propria esistenza che possa sostenersi sulle sole esperienze sessuali.
L’amore era una religione anche al tempo di Lucrezio, uno stato che si riteneva indotto da un Dio per la sua potenza, capace di legare l’amante, all’amato. Nussbaum (1996) ci dice che nel nostro tempo, la passione erotica del singolo, visto che non c’è più quella su base religiosa, deve recare in sé tutta l’intensità del desiderio. Laddove, ormai, dobbiamo fare i conti solo con fragili progetti mondani che devono racchiudere tutte le speranze di una vita, un tempo rivolte al divino. Dobbiamo forse tornare a porci una domanda: qual è il motivo che nel corso della nostra storia ci ha condotto verso il “disincantamento” nei confronti dell’amore erotico romantico vissuto un tempo dagli uomini e dalle donne come meta centrale, perlomeno di una parte della vita? Non è forse questa la temperie culturale e sociale entro cui si iscrivono le forme della fioritura dell’umano soprattutto in relazione al desiderio e all’affetto nelle loro declinazioni così precarie? Se, il fine vero e proprio dell’amore che si esprime anche nella sessualità, è raggiungere una prossimità che consenta un’intima corresponsione con l’altro, è pur vero che gli amanti che vivono il bisogno profondo dell’altro come dolorosa dipendenza, da cui sentono originarsi una debolezza, cercheranno di distruggere l’alterità dell’amato; vi è troppa sofferenza nell’essere consapevoli della propria incompletezza! Nussbaum (2001) ci dice che la vita umana migliore è quella capace di assumersi il rischio della perdita e della sofferenza. In grado di entrare in contatto con Eros come con i suoi pericoli.
Perché alcuni uomini fanno esperienza del desiderio e dell’amore per le donne in termini di una dipendenza sprovveduta, annichilente, umiliante? Essere “alla mercè” di un femminile che eccita costantemente il desiderio o stimola il bisogno di dipendenza assoluta, è un fantasma contro il quale la mente maschile che percepisce la donna come dotata di un potere che lo rende passivo e succube, combatte in molte forme del legame. Del resto, siamo consapevoli che vi è sempre un elemento di dipendenza insito nel desiderio, fa parte della natura più profonda della passione e la vulnerabilità a cui si è esposti nel desiderio adulto rivela necessariamente le vicissitudini della propria dipendenza infantile.
È la scoperta e l’accettazione dell’alterità dell’altro che definisce i limiti della propria onnipotenza e crea vulnerabilità e questo tipo di esperienza può sempre correre lungo il crinale dell’umiliazione e della rabbia. È per tale motivo che l’oggetto d’amore può trasformarsi repentinamente in oggetto d’odio. L’aggressività è il punto debole del desiderio (Benjamin, 1996). Più intensa è la passione, più grande è la vulnerabilità che sperimentiamo e più potenzialmente distruttiva l’aggressività. La capacità di contenere l’aggressività è una precondizione della capacità d’amare.
La possibilità che l’amore sopravviva, non ha tanto a che vedere con l’evitare l’aggressività, ma con l’apprendere a tenerla in una costante tensione dialettica con l’amore.
Dobbiamo allora chiederci: a quale prezzo diventiamo quello che siamo? Quali sono le condizioni di crescita che consentono ad un individuo di esistere come espressione di “Io sono, io sono vivo, io sono me stesso” (Winnicott, 1974) e riconoscere l’altro come fonte di arricchimento e di piacere? In quali condizioni un essere umano sente di poter essere se stesso? E in quali condizioni siamo sopraffatti dal terrore dell’annichilimento evocato dall’altro che si è trasformato in nemico?
L’assoggettamento2 coinvolge i nostri investimenti affettivi. Siamo disposti a rinunciare ad una parte di noi non riconosciuta, pur di mantenere in vita un legame.
Riprendendo l’antico e mai ben chiarito quesito posto da Freud “Che cosa vuole una donna? Potremmo ampliarlo e chiederci: che cosa uomini e donne desiderano gli uni dagli altri?
Incontri con oggetti trasformativi, incontri che diano il senso che la vita val la pena di essere vissuta, e l’amore è un’esperienza profondamente trasformativa se la si può tollerare. Gli oggetti d’amore, di odio, di paura, sempre recano le tracce di oggetti precedenti e le nostre emozioni nei confronti di essi rappresentano nella loro espressione, emozioni rivolte agli oggetti del nostro passato.
Se il processo di differenziazione e soggettivazione consiste in un equilibrio costante tra affermazione e riconoscimento, tra padronanza ed espressione del sé e se i membri della relazione sono due soggetti attivi e vitali, la domanda centrale diventa: come posso continuare ad essere me stesso riconoscendo l’altro dal quale non posso separarmi, se non al prezzo di patire un enorme dolore? Detto in altre forme, se il legame non si sviluppa sulla base di esigenze narcisistiche che devono compensare fragilità e vulnerabilità non elaborate, possiamo allora considerare uno sviluppo di sé nel legame, un legame capace di contenere la dialettica del riconoscimento.
La complessità è necessaria alla vita psichica, ma allora, come è possibile evitare la scissione e il crollo del riconoscimento? La questione del riconoscimento, sostiene Benjamin (2019), sarà sempre la questione inerente una lotta per trionfare e per distruggere, oppure dovrà inaugurarsi una diversa capacità di affrontare l’alterità.
Dobbiamo poter prendere in considerazione una verità più generale, che è quella secondo cui gli individui sono disposti a pagare qualsiasi prezzo, pur di essere, pur di vedersi riconosciuti.
Da questa necessità di mantenere vivo un legame ad ogni costo, questo «meglio del nulla», si può generare una “struttura melanconica” (Butler, 2005) costitutiva della soggettività stessa, la quale oscilla tra una radicale negazione della parte «sacrificata» e l’infelicità e la rabbia per quello che si è perduto ed invano si cerca di ritrovare in un legame con un oggetto d’amore posseduto totalmente. Il crocevia fondamentale per la psiche tra specchio e alterità può rivelare le tracce di un eccesso di prossimità tra le generazioni che non consente la costituzione di uno spazio psichico autonomo. In questa prospettiva, è opportuno chiarire, che i quesiti e le riflessioni inerenti le diverse forme di vita psichica e i processi del divenire soggetti attraversano in modo ubiquitario ogni funzionamento psichico, inerente sia la posizione femminile che quella maschile; una posizione materna e una paterna: “femminilizzarsi”, “maternizzarsi”, ovvero occupare una posizione sia femminile che materna, non riguarda specificamente la donna o l’uomo, ma si avvicina piuttosto a quella condizione in cui ciascun essere umano deve essere capace di avvicinarsi alle tracce della propria storia di bisogno e di desiderio.
L’insostenibile complessità dell’esperienza umana.
In una intervista a ridosso del Congresso Spi (2014) sul tema del “divenire soggetti”, riflettevo sulle condizioni di infragilimento identitario, a cui assistiamo impotenti, attraverso la negazione del rapporto con la propria interiorità e con le forme di dipendenza ad essa associate. Ho definito questo aspetto, un resistere al materno. Dovremmo infatti chiederci se la cifra del disagio contemporaneo ci riveli che ad “evaporare”, sia il materno e la madre e non solo quel Padre la cui evocazione, così come prevalentemente viene posta, sembra contenere ancora elementi di cultura patriarcale, mai chiaramente esplicitati ed analizzati sino in fondo. Una maternità elevata a esempio di sacrificio di sé solo per cancellare nel materno e nel femminile, quella dimensione di soggetto altro, che deve poter riconoscere ad ogni donna e ad ogni madre di poter essere un soggetto per sé.
Afferma ancora una volta Winnicott “l’accettazione della dipendenza assoluta e poi relativa è davvero molto difficile, poiché riguarda l’uomo e la donna reali” (…) e prosegue: “Donna è la madre ai primi stadi della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, e della quale non si ha consapevolezza”. Come si arriva ad avere consapevolezza della madre come oggetto separato e infine come soggetto altro portatore di una propria vita psichica che deve poter essere riconosciuta come tale? la dipendenza fa paura, più che essere vissuta, attraversata, e poi lasciata per godere di una condizione di liberta in presenza dell’altro, viene evitata. Se “la nostra società ritarda ad effettuare un tipo di riconoscimento di questa dipendenza che è un fatto storico negli stadi iniziali dello sviluppo di ogni individuo, deve esserci un blocco al dispiegarsi tranquillamente di una salute completa, un blocco che viene dalla paura (Winnicott, 1964).
La creazione del soggetto nello spazio tra il bambino e la madre comporta diversi tipi di tensione dialettica tra unione e separazione, interno ed esterno. Afferma ancora Winnicott: “c’è una battaglia continua nell’individuo che dura tutta la vita, nel differenziare i fatti dalla fantasia, la realtà esterna dalla realtà interna, il mondo dal sogno. Ed è proprio in questa lotta che prende forma la capacità di riconoscimento del primo altro da sè: la madre” (Winnicott, 1990, p. 203).
Desidero ricordare che i bambini e le bambine lottano sin dai primi momenti della vita per mantenere una identificazione con entrambi i sessi nel bisogno/desiderio di avere come oggetti di sicurezza, di riconoscimento e di identificazione, sia la madre che il padre. In situazioni armoniche le identificazioni con entrambi i genitori consentono al bambino di assimilare le caratteristiche di ciascuno senza limiti identitari, l’identificazione con l’altro sesso può coesistere con l’identificazione con il proprio sesso. È nelle successive vicende edipiche che pur riconoscendosi nel proprio genere ogni individuo dovrebbe poter esprimere gli aspetti maschili e femminili del sé. Tale integrazione delle identificazioni può essere la premessa che consente di comprendere sia l’altro che il Sé.
Per concludere, ritornando alle riflessioni iniziali, abbiamo potuto sperimentare nella nostra pratica clinica come il disagio della contemporaneità nei legami d’amore sia caratterizzato dall’incontro con pazienti che soffrono una incapacità di amare, di una difficoltà a costruire e mantenere legami intimi e duraturi, con il “terrore” di ogni dipendenza. Ritengo questa, l’altra faccia speculare della necessità di dominio dell’altro.
È la base narcisistica, il sentimento di sé che fonda la soggettività e di conseguenza il senso del proprio valore, ad aver subito un duro scacco. L’armonia di un solido senso della propria soggettività che tiene in equilibrio l’economia psichica dell’individuo, sembra aver lasciato il posto ad un senso di costane minaccia traumatica costituito dal timore “dell’altro” e dalle ineludibili richieste della realtà esterna. Questo delicato equilibrio in costante oscillazione sembra mostrare dei segni di frattura. Le difese narcisistiche del sé e le relazioni oggettuali narcisistiche ad esse collegate hanno la funzione di preservare la struttura psichica dal dolore mentale non pensabile. In una condizione fallimentare, l’essere umano sperimenta che la propria soggettività è esperibile solo a patto di escludere fino a sopprimere l’altro che costituisce una minaccia o che il legame può essere vissuto solo attraverso la resa passiva all’oggetto. Una dipendenza sprovveduta e fuori controllo che rende ogni legame intimo e profondo una oscura minaccia da rifuggire. Tale organizzazione narcisistica, non è fondata su un rifiuto “orgoglioso” della dipendenza, quanto sulla mancanza di oggetti affidabili da cui poter dipendere. Una trasformazione evolutiva che Green (1979) proponeva con queste parole: “quando gli oggetti sono stati precocemente delusivi, al soggetto non rimane che contare sulle risorse della fiducia – illusoria – che egli pone per compensazione nella propria onnipotenza”. Io credo che questa sia la cifra fondamentale del malessere contemporaneo che ho definito “resistere al materno”. All’origine della vita, se le cose vanno sufficientemente bene, i bambini hanno fiducia che l’oggetto del loro desiderio possa essere trovato e questo significa che gradualmente la psiche diviene capace di tollerare l’assenza dell’oggetto, potendosi identificare con la madre sia come oggetto sia come soggetto altro da sé.
Possiamo, allora pensare che possa prendere forma una diversa modalità di amare nella comunità delle donne e degli uomini? Di tollerare la dipendenza dall’altro da sé senza esserne annichiliti? È la sfida che come esseri umani abbiamo davanti per il nostro futuro se ci poniamo dalla parte del Principio di vita e di Eros.
Bibliografia
Benjamin, J. (1996). Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo erotico. Milano: Raffaello Cortina.
Benjamin, J. (2006). Uguaglianza e differenza: una visione “iperinclusiva” dello sviluppo del genere. In M. Dimen & V. Goldner (Eds.), La decostruzione del genere. Teoria femminista, cultura postmoderna e clinica psicoanalitica. Milano: il Saggiatore.
Benjamin, J. (2019). Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo. Milano: Raffaello Cortina.
Butler, J. (1999). Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità. Roma: Laterza.
Buttler., J. (2005). Critica della violenza etica. Milano: Feltrinelli, 2006.
Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1980). Autopoiesis and Cognition: The Realization of the Living. D. Reidel Publishing Company.
Nussbaum, M.C. (1996). Compassion: The Basic Social Emotion. Social Philosophy and Policy, 13, 27-58.
Nussbaum, M.C. (2001). La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca. Il Mulino, Bologna.
Kaës, R. (2001). Soggetto del legame. Ricerca Psicoanalitica, Anno XII, n. 2, pp. 161-184.
Russell, (1967). Sessualità infantile e attaccamento (a cura di) F. Conrotto. Trad.it. in D. Widlöcher, J. Laplanche, P. Fonagy, E. Colombo, D. Scarfone, P. Fédida, J. André, C. Squires. Milano: Franco Angeli, 2000.
Sissa, G. (2023). L’errore di Aristotele. Roma: Carocci.
Winnicott, D.W. (1964). Il bambino, la famiglia e il mondo esterno. Roma: Magi edizioni, 2005.
Winnicott, D.W. (1974). Gioco e realtà, tr. it. Roma: Armando Editore.
Winnicott, D.W. (1990). Dal luogo delle origini. Milano: Raffaello Cortina.
1 Intendo per oggetto cattivo tutte quelle forme di esperienza psichica in cui il proprio sè può essere minacciato di poter esistere, fin nelle forme più estreme.
2 La dipendenza, lo stato di prematurazione che ci rende totalmente dipendenti dagli altri esseri umani.