Attualità e nuove sofferenze

Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8’. Conversazione con Massimo Ammaniti*- di Martina Balbo di Vinadio

L’insegnamento dell’esperienza da pionieri nell’assistenza ai “bambini irrecuperabili”. I passi avanti di oggi e i rischi dell’attuale burocratizzazione.


Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8’.  Conversazione con Massimo Ammaniti*-   di Martina Balbo di Vinadio

Ripercorriamo insieme i ricordi dell’incarico al reparto dei minori irrecuperabili dell’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma, attraversando la storia della neuropsichiatria infantile per pensare ad oggi.

 

Martina Balbo di Vinadio: Quando ho saputo di questo suo nuovo libro mi sono subito incuriosita, occupandomi da anni di bambini con disabilità e disagio psichico. Così ho comprato il libro e ho trovato un testo ricco, che può essere letto a più livelli: il racconto di un percorso che intreccia la storia della psichiatria e della neuropsichiatria infantile in Italia nel passaggio legato alla chiusura dei manicomi e degli istituti. Ma anche il suo percorso professionale e personale. Come è nata la spinta a tornare su questa esperienza e volerla condividere?

Massimo Ammaniti: I due anni di lavoro al Reparto dei minori dell’Ospedale di Santa Maria della Pietà mi aveva coinvolto in modo forte: c’era stato un grande impegno per portare avanti un ‘piccola grande rivoluzione’. Trasformare quel contesto drammatico da luogo di reclusione in cui i bambini erano seminudi e abbandonati, al tentativo di ridare una vita dignitosa e una possibilità di cura a bambini considerati irrecuperabili. Il mio incarico si era concluso in modo repentino dopo due anni; c’era stato dispiacere, delusione, e rabbia per come si era chiusa l’esperienza. In seguito avevo accettato che le cose fossero andate in quel modo, avevo girato pagina proseguendo il mio percorso professionale. Il desiderio di tornare a parlarne ora credo sia legato da un lato all’età, che porta a riguardare il passato, dall’altro al fatto che quelli erano stati anni di grande cambiamento. C’era il movimento collegato a Basaglia e alla chiusura dei manicomi e si sviluppava una nuova attenzione verso i diritti personali delle persone con disagio psichico. Qualcosa di analogo accadeva nel campo dell’infanzia, rispetto al modo in cui venivano trattati e pensati i bambini disabili. Per cui la motivazione a scrivere il libro è stata non solo ripercorrere la mia storia personale, ma raccontare il clima di quegli anni.

MB: Mi sembra importante questo suo racconto e credo sia anche di grande utilità e stimolo per riflettere sull’attualità del nostro lavoro. Mi sembra che possiamo dire di essere andati molto avanti, ma forse abbiamo perso qualcosa di quegli anni…

MA: Si sono fatti dei passi avanti, c’è maggior rispetto: sono riconosciuti più diritti e possibilità di presa in carico per bambini con disabilità. C’è però anche un 'politicamente corretto’ e il rischio di finire in una dimensione impersonale nella cura, perdendo l’attenzione a certi temi. Molti colleghi che lavorano nei servizi di salute mentale mi dicono che ora il lavoro si è molto burocratizzato.

MB: Sono d’accordo con lei: da un lato abbiamo superato l’idea di irrecuperabilità e abbiamo accumulato una letteratura scientifica che ci sostiene rispetto alla possibilità di prenderci cura delle diverse forme di disabilità. Anche il linguaggio che usiamo è cambiato ed esprime maggiore rispetto. Dall’altro è vero che il lavoro si è burocratizzato. 
A questo proposito penso all’idea che ebbe lavorando al Padiglione 8: il suo iniziare a sognare una gita al mare per quei bambini che erano reclusi da anni dentro al reparto dell’ospedale. Un’idea apparentemente folle…che riuscì a realizzare! Paradossalmente penso che oggi potrebbe essere più difficile, con i protocolli che dobbiamo seguire… Sono curiosa di sapere da lei come le venne in mente questa idea stupenda della gita a Passoscuro?

MA: Questi bambini erano reclusi nell’istituto da anni. Io li avevo incontrati una prima volta nel 1966: quando ero un giovane medico appena laureato mi offrirono la possibilità di lavorare lì.  Ma dopo aver visitato il reparto mi ero subito dimesso, perché la situazione era drammatica e io non me l’ero sentita di affrontarla. Sono tornato al reparto nel 1972, dopo la specializzazione in neuropsichiatria infantile, e ho trovato una specie di morta gora: questi bambini erano tenuti senza alcuna occupazione e cura, non venivano chiamati per nome, indossavano un camice, non avevano abiti personali, non c’era cura per il loro corpo; anche le autonomie di base (il controllo sfinterico, il nutrimento) erano gestite in modo inumano; alcuni erano allettati e legati.
Forse la mia insofferenza per tutta quella situazione mi aveva portato a tentare un movimento drastico…Mi viene da pensare al gioco degli scacchi e alla mossa del cavallo: qualcosa di imprevedibile che mette tutto in discussione. Stando all’interno del padiglione iniziai a sognare l’idea di andare al mare: aprire le finestre, portare i bambini fuori e anche le infermiere, facendo vivere loro una giornata di libertà. Ne avevo bisogno anche io, perché dentro c’era una situazione mortificante per tutti. Sentivo la necessità di una spinta di vitalità, di apertura. E sicuramente il mare rappresenta tutto questo.
Così iniziai a pensare a questa gita al mare e parlai dell’idea al primario. Lui mi diede il consenso, dicendo anche che ero io ad assumermene tutta la responsabilità. Erano anni in cui uno si assumeva una responsabilità personale, anche rischiando. D’altra parte se uno vuole stare troppo all’interno delle rotaie le cose inevitabilmente si burocratizzano.

MB: Per tollerare noi operatori il contatto con situazioni di sofferenza, anche angosciose, dobbiamo mantenere il contatto con una dimensione di vitalità: sognare è fondamentale!

MA: Al Padiglione 8 tutti gli operatori erano in burn out. Le infermiere erano molto sofferenti, la loro stessa vita personale e familiare era molto compromessa, non potevano occuparsi dei loro figli. Era diventata una situazione in cui tutto il sistema si era avvitato su se stesso. Il mio era stato un tentativo di aprire le finestre e far entrare ossigeno. E fu molto bello riuscire a realizzare questo sogno della gita: ma credo di non essermi mai stancato tanto come in quella giornata! C’era un grosso rischio per l’incolumità dei bambini. Inoltre se qualcosa fosse andato storto si sarebbe potuto bloccare tutto il lavoro che avevamo messo in piedi.

MB: Quando lei dice ‘aprire le finestre’ penso che sia stata una apertura in più direzioni: per i bambini e gli operatori, e nei confronti della società. Racconta nel libro anche dell’esperienza della scuola materna di Trastevere, in cui per la prima volta propose di inserire bambini con disabilità all’interno di una scuola dell’infanzia. Sono stati passaggi importanti verso l’integrazione. La società come rispose? Si riusciva a mettere in ascolto?

MA: Chi lavora in questo campo secondo me non solo deve avere un’attenzione rivolta al bambino e alla sua famiglia, ma deve tenere presente il contesto. In entrambe le situazioni (penso al reparto e alla scuola di Trastevere) io avevo l’idea che fosse necessario coinvolgere e sensibilizzare la comunità. Ad esempio credo che l’integrazione nella scuola non possa passare solo attraverso le circolari: bisogna lavorare con gli insegnanti, con le famiglie, con gli altri bambini in modo che siano in grado di accogliere il compagno con disabilità. Bisogna aiutare le persone ad avvicinarsi a queste realtà. Nella mia esperienza le cose non sono sempre andate bene, ma ho incontrato persone che hanno mostrato più capacità e disponibilità di quello che si potesse immaginare.

MB: La progressiva specializzazione e settorializzazione del nostro lavoro forse non aiuta in questo processo di integrazione. Rischiamo di frammentarci anche tra di noi: chi si occupa solo di autismo, chi solo di disturbi di apprendimento, e così via.

MA: Da un lato penso che sia utile approfondire ciascuna forma di disabilità, ma dall’altro lato bisogna avere una concezione della salute mentale che non è soltanto in termini di sintomi, o di singolarità, ma anche che tenga conto del contesto. In quegli anni, sebbene il mio obiettivo fosse lavorare per migliorare le condizioni dei bambini ricoverati, ero anche attento alla situazione globale, tenendo conto delle dinamiche di gruppo. E’ stato anche questo a permettere di fare dei passi in avanti. Anche se poi purtroppo non era stato possibile integrare la politica in questo percorso.

MB: In quegli anni il tentativo di far dialogare il lavoro clinico, con la società e la politica c’è stato, anche se non sempre ha funzionato. Ora non so se siamo in una situazione migliore….
Il suo libro mette l’accento anche su un altro aspetto centrale: per lavorare bene in questo ambito bisogna occuparsi non solo dei bambini, dei pazienti, ma lavorare anche sui servizi e sugli operatori: al Padiglione 8 una parte importante del suo lavoro si è rivolto a infermieri, suore, volontari. Forse questo aspetto è stato più faticoso? Immagino che gli infermieri fossero logorati da anni di lavoro in quel contesto. Mi chiedevo se anche per loro si fosse creata una possibilità di respirare con il cambiamento avviato da lei, facendo entrare quell’aria di cui parlava…

MA: Iniziai ad organizzare delle riunioni con le infermiere. Non le avevano mai fatte e all’inizio erano sorprese e spiazzate. Erano abituate a fare il loro lavoro in modo meccanico e ripetitivo; invece le invitai a discutere delle diverse situazioni in gruppo. Era necessario per me cercare di avere la loro adesione, farle partecipare. Loro erano convinte che i bambini fossero irrecuperabili, che non ci fosse per loro nulla da fare. Bisognava cambiare la mentalità. Nelle riunioni via via tentai di far capire il lavoro che volevo portare avanti, che partiva dall’idea di riprendere un processo evolutivo: iniziare a catturare l’attenzione dei bambini, chiamarli per nome, dare importanza al loro corpo, restituire loro dei vestiti… e dopo iniziare a occuparsi di avviare un percorso di riabilitazione più specifico. Penso al libro ‘Il bambino selvaggio’: quelli che ho incontrato al Padiglione 8 erano bambini che avevano vissuto come se fossero stati abbandonati a lungo nella foresta.

MB: Non c’era un pensiero se non per i bisogni di sopravvivenza, anche questi forniti in modo non affettivizzato. Il suo tentativo mi sembra fosse di tentare di far sì che gli infermieri si rimettessero in gioco. Forse questo è stato possibile proprio perché anche lei si è messo in gioco. Ad esempio prendendosi il rischio della gita al mare.

MA: Penso di sì. Non tutto il personale si è coinvolto. C’era un gruppo più diffidente, mentre altre persone sono state più disponibili. Naturalmente il lavoro che noi proponevamo era complesso e il carico aumentava, ma si trovava un senso al proprio impegno e alla propria fatica. In una recente presentazione del libro ho incontrato alcune infermiere che lavoravano all’epoca nel reparto. Una di loro mi ha detto: ‘leggendo il libro piangevo a ogni pagina ripensando a quello che ho visto. Ma ciò che succedeva lì era molto peggio di quello che hai scritto’. In realtà nel 1944 Ossicini, uno dei padri della psicologia italiana che era diventato deputato provinciale, aveva denunciato le condizioni del reparto dicendo che erano condizioni simili ai lager, sottolineando come fosse assurdo l’inserimento di bambini con disabilità o abbandonati in un ospedale psichiatrico.

MB: È stato davvero un compito importante quello di trasformare quel reparto e anche di scriverne per ricordare questa esperienza.

MA: Sono molto contento di esser riuscito a scriverne. Tieni conto che non avevo più nessun appunto. In quegli anni ero riuscito a ottenere un progetto di ricerca del CNR per studiare questi bambini, il loro funzionamento, la loro storia e i miglioramenti ottenuti con il nostro lavoro. Avevo raccolto dati e informazioni. Ma non ho più trovato nulla. Come dicevo all’inizio, quando si è chiusa questa esperienza evidentemente non volevo per certi versi mantenerne il ricordo: per me è stata una delusione forte quando sono stato mandato via. Ma soprattutto era doloroso il pensiero dei bambini che sono stati trasferiti in istituti diversi in giro per l’Italia, spesso non adeguati…L’unica cosa che mi sono detto è che nelle vite difficili di questi bambini almeno avevo contribuito a favorire delle condizioni di vita migliori e un aiuto per sviluppare alcune capacità.

MB: Penso che il lavoro nel reparto sia stato importante non solo per quei bambini, ma che abbia messo dei germogli: l’avvio di una possibilità diversa di prendersi cura di queste situazioni. Accennava che aveva raccolto dati di ricerca: penso che la cifra di questo libro è il racconto di una esperienza non attraverso dei dati, ma nella forma di un racconto in prima persona.

MA: Mi ha colpito che quando ho iniziato a scrivere: i ricordi mi sono sgorgati improvvisamente, e ho scritto questo libro senza potermi fermare. Evidentemente era qualcosa che tenevo dentro e a cui dovevo dare voce.

MB: Questo si percepisce nella lettura, anche perché il racconto professionale si lega al racconto personale. Sembra un riattraversamento a tanti livelli. Trovo molto evocativo il titolo che ha scelto, che unisce e fonde le parole ’oscuro’ e ‘passo’… Mi è sembrato che questo accostamento potesse rappresentare l’integrazione tra l’angoscia di entrare in contatto con un luogo oscuro (quello dell’istituzionalizzazione, della disabilità, forse più in generale del contatto con la sofferenza psichica) e la possibilità di fare un passo, mettersi in movimento…

MA: Chi ha una formazione psicoanalitica lo sa, occuparsi di bambini disabili, di salute mentale, non è un lavoro come un altro. Sicuramente ci sono delle risonanze profonde che si legano alla storia personale di ciascuno di noi. Prendersi cura di bambini indifesi, con disagio, è legato al nostro mondo interno e al modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri. Per me è stato fondamentale in quegli anni che l’esperienza che vivevo trovasse anche spazio nel lavoro analitico, che mi ha aiutato a sopportare queste situazioni.

MB: La formazione psicoanalitica ci aiuta a utilizzare le nostre risonanze per esplorare luoghi oscuri e potenzialmente vitali, sia delle persone di cui ci occupiamo che di noi stessi. La ringrazio per la condivisione di questa esperienza che penso ci spinga a riflettere sulla complessità del nostro lavoro. L’orrore che lei racconta fa saltare agli occhi gli enormi progressi nel campo della neuropsichiatria infantile e della psicopatologia dell’età evolutiva, che ci consentono oggi di offrire percorsi mirati per i diversi disturbi nel neurosviluppo.


Abbiamo superato l’idea di irrecuperabilità che come dice Ammanniti ‘è un’etichetta di cui ci serviamo per non impegnarci e non lasciarci coinvolgere’. Dall’altro mi chiedo: liberati dall’istituzionalizzazione, non rischiamo di chiuderci in protocolli-procedure-certificazioni che ci allontanano dal contatto con le persone rendendo il nostro lavoro (nuovamente) poco ‘umano’ (e meno efficace)? Forse questo è un altro modo per difenderci? Penso che il racconto di Ammanniti ci ricordi un ingrediente centrale nel nostro lavoro: la capacità di metterci in gioco, come assunzione di responsabilità ma anche come capacità di sognare e giocare.

Martina Balbo di Vinadio

 

* Massimo Ammaniti Neuropsichiatra Infantile, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, membro della International Psychoanalitical Association, Professore Onorario di Psicopatologia dello sviluppo presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università di Roma.



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