Cultura, cinema e arte

Pensavo fosse Dioniso invece era la Disney

L’etica dei social e lo spirito di Gianluca Vacchi: l’uomo da milioni di follower che non sa cosa sia il piacere, ma ne simula benissimo uno senza limiti


Pensavo fosse Dioniso invece era la Disney

di Chiara Buoncristiani Tommaso Romani

La vita per apparire meravigliosa si fa durissima, soprattutto quanto ti chiami Gianluca Vacchi, da Bologna, anni 54 e icona pop a cui Prime Video ha di recente dedicato il docufilm “Mucho Mas”.  

Finanziere e deejay, miliardario e imperatore dei selfie, fisico scolpito, muscoli e tatuaggi ovunque. Nell’ambiente della sociosfera Gianluca è impeccabile, la totalità della sua esistenza una parabola del Vangelo secondo Instagram. Così in un attimo i suoi video su TikTok diventano contagiosi. Vacchi fa un balletto, va in palestra, brinda a champagne, arringa le discoteche di Ibiza, diventa padre, piange; si trucca da donna, fa l’ironico con le facce buffe e i tacchi a spillo; oppure sposa una modella di 20 anni più giovane, scala una vetta di mille metri, si butta col paracadute, simula una cena sott’acqua, fa la verticale sul bordo di una barca. Come per le Barbie, c’è un Vacchi per ogni stagione e ogni occasione è buona per fare gadget di sé, ottenendo sempre più like.

Vacchi il marchio della fabbrica social se l’è tatuato sul braccio, “ENJOY”. Sembrerebbe il trionfo di Dioniso: l’apologia del godimento estremo, stampato sulla pelle per essere condiviso con milioni di follower. E’ una filosofia che si incarna, un modo di stare al mondo, dove però il logo è sostituito al logos. Viene in mente un bignami in salsa pop, che da Kant porta a Nietzche. Per Vacchi si tratta di liberarsi e “fare il ca**o che ti pare”. Fin qui è proprio Dioniso, ma Gianluca fa davvero quello che gli pare?

Osserviamolo nella sua routine mattutina: sveglia all’alba con obbligo di sosta per due ore nella camera iperbarica che si è fatto costruire in casa. Successivo passaggio alla crioterapia, cinque minuti a meno cento gradi, attività aerobica, palestra sollevando pesi, riunioni strategiche, aperitivi glamour, amici vip, moglie da copertina. Tutto, citandolo, per “sconfiggere il tempo” e restare virale. Insomma tutto per essere all’altezza delle aspettative della sociosfera...

Anni luce dal potersi appropriare di un proprio desiderio soggettivo, il povero Vacchi finisce così per essere totalmente implicato nell’Altro. Lui, come i tanti influencer adorati e invidiati, diventano rotelle di un meccanismo a cui si assoggettano. Chi spopola sui social è inconsapevolmente al servizio di un dispositivo che sembra rappresentare persone che godono. Ma è un’illusione ottica, perché a godere, se così si può dire, è solo l’algoritmo. A ben vedere, sui social siamo tutti schiavi di una logica del baratto: riconoscimento e popolarità in cambio dell’impegno a non mostrarci mai vulnerabili, bisognosi e “mancanti”. Il dramma è che il riconoscimento così ottenuto non ci parla di noi, ma di quello che ci costringiamo a essere. Ne esce “validata” solo una versione colonizzata di quello che possiamo essere.

Il docufilm ricostruisce la storia del nostro Vacchi a partire dall’infanzia. Lo vediamo baby campione di sci. Con mamma che lascia tutto per seguire la “carriera” di questo figlio dorato: quando lui ha nove anni si trasferiscono da Bologna a Cortina. Papà resta solo per dieci anni, ma non se la prende, continua a fare il capitano d’industria nel capoluogo emiliano, perché a lui basta che il piccolo Gianluca raggiunga l’obiettivo. Una parete ospita ancora decine di coppe e medaglie. Un investimento narcisistico da parte dei genitori che fa scopa con la devozione occulta per il dio della performance: “Purché abbia successo”.

E qui la rivelazione: ci saremmo aspettati Dioniso, invece troviamo uno scenario da principessa Disney. Una di quelle il cui destino è disegnato dagli altri. Che siano fate con le ciglia lunghe (come la moglie modella) o valorosi cavalieri pronti a proteggere i piccoli (come fa lo stesso Vacchi, quando gli nasce la figlia, tra fiumi di lacrime ed elicotteri che inondano il cielo di rosa), siamo ai lavori forzati del lieto fine. Nei parchi Disney non puoi non divertirti, tutto avviene come per “magia”, ma nel frattempo tutto è merchandising e le principesse diventano luogo di messa in atto di una trasgressione che non puoi trasgredire.

Qui spunta il dramma, perché si tratta si un’ingiunzione paradossale. L’imperativo categorico 2.0 si chiama Godimento e così fa scacco. Perché tra il divieto di non godere e la tecnologia del lavoro forzato il passo è breve. Come il prigioniero ritratto da Kafka nella “colonia penale”, che una macchina tatua ogni giorno incidendogli sulla pelle il nome della sua colpa, Vacchi si immola al dispositivo, immortalandosi costantemente, con il suo “ENJOY” stampato sul corpo.

Da qui il continuo e contraddittorio gioco delle parti delle giornate di Gianluca, tra edonismo e disciplina ascetica, tra l’aspirazione a sbarazzarsi dell’Altro e il desiderio che dell’Altro non può fare a meno.

Il Dio presunto morto subito rinasce, assai più tirannico di prima, sotto nuovo nome. Con l’intenzione di dimostrarci quanto lui sia imbattibile e al di là di ogni castrazione, Vacchi rivela quanto questo sbandierato diniego del limite nasca da un bambino non riconosciuto nella sua singolarità e “sceneggiato” fin dalla nascita per essere “vincente” e “bravo” a intercettare la spinta narcisistica di chi l’ha generato, che siano i genitori naturali o il dispositivo social.

Se sei un operaio di quella fabbrica “no limit” che sono i social media, le catene sono dorate e pesantissime: la religione dell’onnipotenza ha la tempra rigida e normativa del Calvinismo e la seduzione vischiosa di una setta.

Vacchi ripropone in chiave pop il più classico degli interrogativi: “Per stare bene posso fare quello che dico io o debbo fare quello che vuole l’Altro?”. Torna in mente la risposta dei nostri adolescenti: “Anche meno, Gianluca!”

Eppure, c’è in Vacchi qualcosa della Coca Cola, che ce lo rende simpatico, oggetto di alienazione della produzione e del consumo, ma anche manifestazione del grande sogno americano. Come ha sapientemente osservato Andy Warhol (la filosofia di Andy Warhol. Da A a B e viceversa. Feltrinelli, 2016) “ogni Coca Cola è uguale a tutte le altre e ogni Coca Cola è buona. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu”.

Probabilmente ciò che manca a Vacchi è un Andy Warhol, che trasformi questa estetica dell’eccesso triste in qualcosa di deliberatamente Kitsch, uno sguardo che si appropri di Vacchi in modo creativo, teatrale forse, risignificando e demistificando ciò che si insinua in una cultura, con buona pace dei miliardari, tutto sommato popolare. Per dirla con Heidegger del 1976, o con Susan Sontag, “ormai solo il Camp ci (ti) può salvare”.

 

 

 

 

 



Partners & Collaborazioni