Cruising Utopia - Muñoz racconta il queer come orizzonte desiderio e contaminazioni animate da tutto ciò che è diverso e minoritario
Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
The art of losing’s not too hard to master
Though it may look like (Write it!) like disaster[1]
C’è del sesso solo quando c’è qualcosa che non funziona.
(A.Zupančič)
Cruising Utopia[2] è un libro segnato dalla perdita[3], come ci ricordano Nina Ferrante ed Emanuele Grassi nella prefazione alla traduzione italiana.
Innanzitutto perdita dell’Autore e poi delle aspirazioni rivoluzionarie del movimento LGBT, diluite e infine dimenticate nel “pragmatismo gay”, ovvero nella retorica inclusiva-esclusiva dello Stato Liberale e nel bisogno (illusione) di sentirsi parte di un ordine sostanzialmente in bancarotta.
Perdita drammatica e al tempo stesso struggente, nostalgica, di un modo di pensare diverso, di un modo di pensare mondi diversi.
È però anche un libro sulla speranza. Un libro che ci mostra come desiderare qualcosa che ancora non c’è.
Muñoz lo fa attraverso un racconto, a tratti molto personale, del b-side della città, soprattutto New York, ma non “nel tentativo di recupero degli aneddoti scabrosi, o il tentativo riuscito di svelare quanto fossero froce - tra note e velate - alcuni dei più noti esponenti dei movimenti culturali di cui racconta Muñoz[4]”. Ma per riportare alla memoria tutto ciò che non era bianco e trasparente, una mappa della città che non ha come centro la Factory di Andy Warhol, ma delle mappe relazionali queer prima del queer. All’interno di queste mappe, tra le banchine dove si fa cruising[5], i cessi della metropolitana, tra testi militanti e personaggi “bizzarri e scomposti”, Muñoz rintraccia un baluginio, un impulso utopico. Rievocare il passato per costruire un orizzonte alternativo è un vero e proprio metodo. Psicoanalitico?
In tal senso diremmo che è anche e soprattutto un libro del desiderio. E per questo di interesse psicoanalitico. Un desiderio come chiave dell’assoggettamento, ma anche come potenziale liberatorio. Almeno finché il desiderio non sia bonificato dalla dimensione erotica.
Il queer è definito da Muñoz come un modo di desiderare strutturante e colto che ci permette di vedere e sentire oltre il pantano del presente.
È un desiderio struggente dunque che spinge sia oltre la romanticizzazione del negativo che oltre gli affanni del presente.
Tale desiderio l’Autore lo coglie in qualcosa che manca, nell’eccesso che lascia traccia. È uno sguardo che si rivolge costantemente al passato, in ciò che E. Bloch[6] definisce “non-più-conscio”.
“Questo desiderio è rivolto verso qualcosa che non è ancora qui, oggetti e momenti che bruciano di anticipazione e promessa [...] i piaceri passati proteggono dai pericoli affettivi del presente, mentre rendono possibile un desiderio che è il cuore della futurità queer” (op.cit. p.34). Muñoz si rivolge ai margini della produzione politica e culturale per compensare quella che definisce tirannia dell’etero-omo-normatività. Come lo fa? L’aspetto a nostro avviso più centrale del lavoro di Muñoz che qui si mostra è il passato.
Il passato, e lo sa bene ogni psicoanalista, non sta lì, ma “fa cose”. È dunque performativo.
Ciò che Muñoz critica è una sorta di certezza ontologica che va a braccetto con il pragmatismo gay contemporaneo. Una narrazione presa in trappola tra il conformismo della presenza e fantasie sul negativo che “allontanerebbero il queer da alcune contaminazioni” (p.14) come la razza, il genere, e altri tropi della differenza. Bloch, Adorno, Marcuse[7], ci insegnano a criticare un’idea totalizzante del presente. L’Autore del Principio Speranza lo fa mettendo in tensione il passato, non-più-conscio, con il futuro del non-ancora-qui. Gli studi gay e lesbici possono, per Muñoz, facilmente divenire reazionari, colpendo a morte l’immaginazione in una prospettiva antiutopica che diviene in ultima analisi antirelazionale. In quanto il negativo non deve rimanere costretto in una logica binaria di contrapposizione (positivo-negativo, luci-ombre). Ma ponendo il queer sempre all’orizzonte il negativo diviene una risorsa, qualcosa che appartiene più allo scandalo che alla correzione.
Pensiamo soprattutto ad Homos di Leo Bersani (1996) o a No Future di Lee Edelman (2004). Mettere il queer all’orizzonte è metterlo a riparo dalle derive antisociali, come se un altro tipo di piacere dovesse trovare rappresentazione solo nell’irrappresentabile della Jouissance (ivi, p.18). E qui c’è un punto fondamentale di interesse psicoanalitico.
Abbiamo l’impressione che tutto il lavoro dell’Autore sia teso a rievocare oggetti perduti ma capaci di performare un altro desiderio, un altro mondo. Gli eccessi di cui racconta sono tanto incandescenti quanto effimeri, ma sempre si collocano nel tentativo di dare nome e rappresentazione sul limite di ciò che altrimenti tenderemo a liquidare come “agito” o perversione. Muñoz sembra dirci che anche lì c’è traccia dell’Altro[8]. “Produrre mappe... con cui rappresentare il modo in cui lo Stato non ci permette di nominare le nostre mappe nella loro interezza” (ivi, p.171).
Quello di Muñoz è un lavoro prezioso in quanto ricerca colta e radicale del desiderio alla base del montaggio di narrazioni minoritarie, sempre respinte dallo Stato Liberale, ma non per questo incapace di costituirsi in performance estetiche, che assumono il valore di splendidi sintomi, lontani dalle categorie con cui siamo soliti leggerli. Cruising Utopia è una sfida raffinatissima.
E allora il cruising può avere inizio. Il Magic Touch del Queens, il Gaiety a Manhattan, L’Eros Theatre e lo Show Palace sono tutte utopie, “non luoghi” che resistono alla Disneyficazione delle città e del sesso. Nei silenzi eccessivi e glaciali tra la poetessa Eileen Myles, Autrice di “Chelsea girl, un racconto esplicito pieno di scopate, bevute e altri modi di autodistruggersi potenzialmente lirici” (ivi, p. 17) e il famoso poeta James Schuyler, voce della New York school... “Era come la musica, Jimmy era la musica” (ibidem.), Muñoz rintraccia un modo di relazionarsi non rassicurante e che parte da un negativo. Andy Warhol avrebbe commentato con uno dei suoi “Wow!”. Così nella scrittura di John Giorno, nelle sue descrizioni dei bagni di Prince Street e del rapporto sessuale con Keith Haring (ivi, p.46), non troviamo un’iperbolica spavalderia sessuale ma la possibilità di una trasformazione, traccia di una vita sessuale in pubblico che provoca l’imprinting egemone e si oppone al ritiro della sessualità nella sfera privata. Le scene di sesso pubblico continuano tra i parcheggi dei camion in fondo a Christopher Street, vicino al fiume, “c’era un posto dove si poteva andare di notte a cercare una botta e via” (ivi, p.66). Delany ci conduce nella descrizione di centinaia di corpi da cui emerge l’impressione baluginante di una nuova formazione sociale, una massa politica, una radicale cura di sé.
Le performance di Kevin Aliance (ivi, p.97), che Muñoz segue per locali tra gli USA e il Canada ci ricordano come il genere sia staccato dal biologico e che maschile e femminile siano maschere da indossare. Kevin è come un ragazzino che mette in scena in modo parossistico e bizzarro i suoi tentativi di identificazione e disidentificazione con l’Altro a dispetto delle logiche di egemonia culturale, del suprematismo bianco e dell’etero-omo-normatività.
La performance, strumento elettivo di conoscenza, così affine alla funzione performativa del passato, poi finisce e il residuo effimero che rimane sfida la metafisica della presenza. La performance è quanto di più vicino all'irrappresentabilità del Reale. È potenzialità nel senso che ne dà Agamben (1996). Fino al limite della performance suicida di Fred Herko (ivi, p.191), al suo Jeté dalla finestra dell’appartamento di un suo amico.
Ci torna in mente l’ultimo lavoro di D. Chianese (2020, p. 187) e ci chiediamo se queste non siano in ultima analisi “ri-costruzioni... tendendo così a sciogliere legami, antichi vincoli, nella speranza di detessere il fato [...] permettendoci di tessere il nostro destino. Da questa prospettiva le costruzioni non sono tanto importanti per quel che scoprono, ma per quello che promuovono”.
BIBLIOGRAFIA
E. Bloch. Il principio speranza (1959). Mimesis: Sesto San Giovanni, 2019.
D. Chianese. Il vivente e il sacro. Astrolabio: Roma, 2021.
J. E. Muñoz. Cruising Utopia (2009). Produzioni Nero: Roma, 2022.
Zupančič. Che Cosa è il sesso? (2017) Ponte delle grazie: Firenze, 2018
RIASSUNTO
Presentiamo un lavoro di J.E.Muñoz, studioso della performance e della teoria queer, da poco tradotto in italiano. Il libro ridefinisce l’orizzonte del mondo LGBT, al di là delle politiche normalizzanti. L’Autore rappresenta il queer come sempre all’orizzonte, un desiderio che anima narrazioni contaminate da diverse minoranze razziali e sessuali. Attraverso la ricostruzione storica e lo studio estetico della performance e degli atti di trasgressione viene analizzato il difficile rapporto tra desideri ed egemonia culturale.
[1] One Art, Elizabeth Bishop (1976). Neanche perdere te (il tono scherzoso, un gesto che amo) mi smentirà. È evidente: l’arte di perdere non è disciplina dura benché possa sembrare (Scrivilo!) una sciagura.
[2] Il libro è stato pubblicato nel 2009 negli USA e in Italia nel febbraio 2022, Produzioni Nero.
[3] José Esteban Muñoz è morto a New York nel 2013
[4] J.E. Muñoz. 2022, P.III
[5] Cruising potrebbe essere tradotto con un generico andare a zonzo alla ricerca di rapporti sessuali, ma per l’Autore assume il valore di una pratica di conoscenza. Di grande interesse il commento dei traduttori nella Prefazione all’edizione italiana sulla decisione di lasciare alcuni termini nella lingua dell’Autore.
[6] Il principio speranza, 1959.
[7] La Scuola di Francoforte è un riferimento costante nel lavoro di Muñoz.
[8] In tal senso è molto vicino ad Alenka Zupančič (2018. Pp. 47,132,159,179).