Pulsione di lavoro: un pensiero fertile per il terreno della salute mentale.
Intervista a Ezio Maria Izzo di Martina Balbo di Vinadio.
Nel 1976 il dottor Izzo, psicoanalista e primario dell’Ospedale Psichiatrico della Casa della Divina Provvidenza di Guidonia, crea una cooperativa di lavoro-protetto per offrire accoglienza e riabilitazione ai degenti cronici di quell’ospedale. La cooperativa, nella quale i primi pazienti scelgono di lavorare nella zoo-agricoltura, consente loro la ripresa di una vita dignitosa dopo l’esperienza dell’ospedalizzazione. Torniamo su questa esperienza che contiene elementi attuali per riflettere sui servizi rivolti a persone con disagio psichico.
MB: Mi sembra che il suo lavoro sia stato un’esperienza di frontiera, antesignano di una visione che mette al centro il potenziale di recupero dei pazienti psichiatrici gravi per consentire di raggiungere una vita soddisfacente nonostante le limitazioni della malattia (attualmente se ne parla usando i termini di recovery e empowerment). Quale era allora la situazione che si trovò ad affrontare nell’Ospedale di Guidonia?
EMI: All’epoca, negli Ospedali Psichiatrici (O.P.) in Italia, la popolazione di pazienti non aveva sempre le stesse caratteristiche psicopatologiche. La popolazione dell'O.P. di Guidonia era composta da pazienti trasferiti dal più conosciuto S. Maria della Pietà, O.P. provinciale di Roma. Si trattava di pazienti molto gravi, dichiarati 'psicotici cronici’. L’ospedale di Guidonia era inoltre O.P. per le province di Frosinone e di Latina. Quindi vi venivano portati dalla polizia, come prescritto nella legge sui Manicomi del 1904, ancora allora in vigore, le persone che erano considerate di ‘pubblico scandalo’. Il territorio delle due province è distante centinaia di chilometri e questo creava un ulteriore frattura dei già compromessi legami sociali e familiari. L’iniziale periodo di osservazione era prescritto per la durata massima di trenta giorni, ma veniva quasi sempre prorogato, finendo per essere definitivo con l’internamento definitivo. I ricoverati erano quindi persone ‘sradicate’ dal proprio territorio, oltre che sofferenti per la patologia in atto. Incontrai pertanto pazienti ben più gravi di quelli degli O.P. di Gorizia e Trieste, dove si svolgevano le esperienze che portarono alla legge 180 del 1978, certamente la più avanzata e perfetta legge sul rispetto dei diritti umani, anche in presenza di disturbi della mente.
MB: La legge Basaglia, di cui abbiamo avuto recentemente la ricorrenza dei 45 anni, ha comportato una rivoluzione culturale, un punto di svolta legato alla chiusura dei manicomi, al superamento dell’idea di custodia e al riconoscimento di diritti alle persone con patologia psichiatrica. D’altro canto la rivoluzione dei servizi di presa in carico, ovvero la costituzione di adeguati servizi alternativi al manicomio sul territorio è un processo tuttora incompiuto…
EMI: Credo che il processo di chiusura dei Manicomi sia ben rappresentato dalla metafora che descrive la distruzione-esplosione dei Manicomi con la ricaduta dei suoi pezzi di schegge tutt’intorno, nei nuovi Servizi Pubblici che, tranne pochissimi esempi positivi, hanno preso la stessa cultura dell’abbandono manicomiale, poco diversa. Incontrai Basaglia nei pochi anni di suo lavoro a Roma come sopra-intendente per la psichiatria. Venne in visita all’Ospedale di Guidonia più volte e parlai a lungo con lui, che si mostrò molto interessato alla creazione della Cooperativa; era presente anche Pier Luigi Scapicchio, allora direttore dell'Ospedale e Presidente della Società di Psichiatria. Scapicchio socio-psichiatra di grande apertura appoggiò sempre la mia iniziativa. Per Basaglia la mia proposta era un perfetto esempio di ciò che egli chiamava una 'gabbia d'oro'. Da una siffatta -dorata- condizione i malati non sarebbero mai più usciti, mentre la sua assoluta priorità era quella di chiudere tutti i ‘manicomi’ italiani. Soltanto dopo, disse, avremmo riparlato di cosa fare. Purtroppo la sua prematura dipartita non ci ha consentito di vedere l'altra metà dell’opera necessaria alla definizione dei Servizi psichiatrici territoriali.
MB: Nella cooperativa i pazienti erano impegnati in un lavoro vero, sebbene in un contesto protetto e con la dovuta elasticità. Era anche prevista una retribuzione, che testimoniava il riconoscimento dell’impegno lavorativo. La sua esperienza con pazienti psicotici mostra l'uso del lavoro come elemento di terapia per reintegrare il paziente nella società, sviluppando aree di maggior competenza e funzionalità, e in questo modo sostenere la parte sana. Che idea c’era all’epoca della presa in carico-trattamento-riabilitazione di tali patologie?
EMI: La legge del 1904, a quel tempo ancora in vigore, aveva fin dall’inizio obbligato tutti gli O.P. ad avere ampi spazi da dedicare alla cosiddetta ’terapia occupazionale’, termine con il quale forse si intendeva indicare il trattamento riabilitativo. Esempio che, anche più di un secolo fa, la legge c’era ma bisognava che qualcuno la applicasse. In tutti i Manicomi Italiani quegli spazi non furono utilizzati per attività riabilitative e furono abbandonati. Per decenni, anche nell’O.P. di cui parliamo, quei locali ed il terreno dove sorse la Comunità-Cooperativa di lavoro protetto, furono disertati. All’epoca della mia proposta tutto era in uno stato di completo abbandono e tale fu dato in gestione gratuita dalla Congregazione proprietaria dell'O.P. alla nascente Cooperativa. In cambio la Regione Lazio pagava una retta più alta per ogni paziente frequentatore di quegli spazi. All'inizio dell'esperienza non immaginavo neppure lontanamente l'importanza del lavoro retribuito e liberamente scelto, come fattore di recupero di parti di sé forzatamente represse dal trauma originario e dall'internamento in Manicomio. Non guardavo quei pazienti pensando alle pulsioni dell'uomo, ma soltanto ritenevo di poterli -parzialmente- reintegrare nella società, dopo esserne rimasti fuori tanto a lungo.
MB: Quale era l’utenza della cooperativa? Immagino ci fossero pazienti anche molto deteriorati dall’esperienza nel manicomio. Come reagirono alla proposta di inserimento nella cooperativa così diversa dal contesto manicomiale?
EMI: Il gruppo stabile a vivere in comunità era di ventotto pazienti e altri venivano al mattino dall'O.P. in day hospital. Tutti i pazienti, in modi diversi ed in diversa percentuale, ritrovarono spinta, meta e soddisfacimento in quel fare nel presente, e nella condivisione del progettare il futuro. Nel libro “Riabilitazione psicosociale” (a cura di Lorenzo Burti) scrivevo che il lavoro è certamente un dovere e un diritto sociale, ma soprattutto è “una necessità dell'essere umano per mantenere il sentimento della continuità della propria esistenza... ne deriva una gratificazione nutritiva per l'Io.” (Izzo 1990, 321). Evidenziavo anche l'importanza della divisione degli utili ricavati dal lavoro. L’importanza del danaro nell'esperienza creativa è paragonabile all'importanza della ricompensa dell'approvazione della madre, nelle prime esperienze creative del bambino, come delineato nel pensiero di Anna Freud e Winnicott. Questo è ciò che manca, ancora oggi, nelle Comunità e nei Servizi Pubblici dei day-hospital. Il riconoscimento e l’apprezzamento, dato dal danaro, ai prodotti del lavoro delle persone nella Comunità-Cooperativa, fu molto alto in particolare per i magnifici ricami delle donne, per alcuni quadri di due pazienti esposti ad una mostra organizzata dalla Comunità e con la partecipazione di non pochi pittori romani invitati, e ovviamente per la vendita di conigli e animali da cortile, sotto tutela del veterinario di zona.
Eugenio, uno dei pazienti, che in reparto veniva spesso contenuto nel suo letto, per le frequenti azioni di auto-nocumento, ricorda nell’intervista che appare nel docufilm di Gianni Garko, quali cambiamenti ebbe lui stesso. Per Eugenio ottenni il tanto desiderato trasferimento in Cooperativa, assumendomi la totale responsabilità. Ovviamente fu concessa anche a lui, come a tutti, la libertà assoluta, totale. La possibilità di concentrarsi sul lavoro da lui scelto, cambiò sostanzialmente la sua condotta e mai più in tanti anni, pensò di farsi del male, pur avendo ogni giorno a disposizione, come strumenti di lavoro, coltelli ed altro. Aveva trovato nel lavoro la meta e l'oggetto atti al soddisfacimento della spinta pulsionale, alla socialità e al lavoro come gioco.
MB: Quale era il gruppo di lavoro della Cooperativa? Avevate la possibilità di portare avanti un lavoro in equipe? Quali figure professionali erano presenti?
EMI: Nei primi mesi ci furono soltanto quattro infermieri che credettero nella mia avventura, e che insieme ai primi tre pazienti, si assunsero il compito di riportare all'abitabilità tutta la struttura, a nostre spese. La legge del 1904, per l'assunzione degli infermieri nei manicomi, non prevedeva alcuna formazione, ma solo una ‘robusta costituzione fisica’. All'inizio pertanto gli infermieri che aderirono al mio progetto, non avevano alcuna formazione e si dedicarono in prima battuta ai lavori di ristrutturazione dei locali, all’adeguamento degli spazi agricoli ed alla cura dei primi animali da cortile. La formazione psichiatrica la fecero, giorno dopo giorno con me sul campo, con l’aiuto della loro grande capacità e dell’entusiasmo nell'avvicinare la sofferenza mentale, considerata finalmente non più solo da controllare, ma da affrontare insieme nel lavorare e nel vivere. Questa era l’equipe, alla quale si aggiunse in seguito una psicologa che faceva anche funzioni di assistente sociale.
Per quanto riguarda la funzione terapeutica degli infermieri mi preme riportare le parole di Elliott Jaques, l'analista che più di tutti si è interessato alla psicoanalisi del lavoro, applicandola nelle Aziende con personale in crisi, dal punto di vista delle teorie kleiniane. Anche dai suoi scritti ricaviamo l’importanza della gratificazione data dal successo e dal riconoscimento del proprio lavoro. A proposito dell'angoscia dell'incertezza del decidere sul futuro, Jaques scriveva che: “l'abilità nel sostenere un'elaborazione di tale angoscia...richiede che il contenuto simbolico dei processi mentali coinvolti nel lavoro prevalgano sui processi concreti…” (Jaques 1978,120). È questo l'aspetto che conferisce al lavoro la qualità di lavoro-gioco, uno stato di cose fondamento per la fiducia nel lavoro, per la fiducia nella propria creatività, senza impegni troppo categorici, sostenuti questi ultimi dagli infermieri-lavoratori. La capacità di sopportare l'angoscia dell’incertezza del futuro veniva supportata nei pazienti soprattutto dalla presenza degli infermieri che li affiancavano nel lavoro. Ancora una volta è Anna Freud ad elogiare gli infermieri in queste esperienze fatte nelle Comunità, ricordandoci che sono loro a vivere un gran numero di ore con i pazienti nelle Istituzioni. (A. Freud, 1958)
MB: Mi chiedevo se a fianco al lavoro protetto nella cooperativa fossero previsti anche interventi di diverso tipo? Immagino ci fosse una presa in carico psichiatrica con terapia farmacologica, c’erano anche percorsi di sostegno psicologico?
EMI: A parte il sostegno psicologico da parte degli infermieri e mio, altre prese in carico non c’erano. Ne ho derivato la convinzione che, anche nei Servizi dei tempi post 180, è molto raro che le varie psicologie possano confrontarsi utilmente fra loro, come è difficile che la psicoanalisi riesca all’interno dei servizi, anche attualmente, a condividere qualcosa con la psichiatria biologica.
Nell’O.P. di Guidonia vi erano altri due psichiatri psicologi-analisti (junghiani) e un collega freudiano, che presto si dimisero, rimasi solo a portare avanti quel progetto. Essendo anche uno specialista in psichiatria avevo il dovere delle prescrizioni farmacologiche, quando necessarie. Mi aiutavano i consulenti delle varie specializzazioni mediche, che apprezzavano molto più degli psichiatri biologici, il mio lavoro. La farmaco-terapia diventa utile solo se utilizzata per contenere l'angoscia del vivere e per lasciare un po' più libera la persona nel volgersi di nuovo, con meno angoscia, al mondo esterno ed al proprio mondo interno, entrambi fonti di turbamento, ma un turbamento non da annullare completamente nell'effetto psico-farmacologico.
Per i pazienti incontrati nello spazio culturale dell'O.P., avevo in mente che la ‘misteriosa’ unità psiche-corpo, o quel ‘misterioso salto’, parlasse un linguaggio espressione di bisogni comuni ad entrambi i livelli. Non poteva essere pertanto umano vivere l'energia pulsionale, vitale, rinchiusi in uno spazio senza il calore della vita e nell’impossibilità di partecipare alla complessità dell'esistenza, delle emozioni, dei tanti destini di ogni persona.
Nelle pagine dedicate ai possibili mutamenti della pulsione originaria, Freud si chiede: ‘di quali e quante pulsioni è lecito stabilire l'esistenza? E' chiaro che vi è qui un ampio margine di discrezionalità. E non vi è nulla da obiettare contro chi voglia introdurre il concetto di una pulsione di giuoco, di una pulsione di distruzione, di una pulsione di socialità, quando l'argomento lo esiga e la specificità dell'analisi psicologica induca a farlo’ (Freud 1915, 19). Giorno dopo giorno, entrato nella cultura manicomiale, pensai che quella specifica condizione di vita senza anima ed il vedere al contrario le stesse persone a volte instancabili nei reparti per i lavori ai quali a volte si dedicavano senza però alcun riconoscimento, mi autorizzasse ad aggiungere un'altra pulsione. Pensai di affiancare alle pulsioni ipotizzate da Freud una pulsione di lavoro, che per alcune caratteristiche è la stessa spinta alla socialità e al giuoco. Pensavo alla nota affermazione di Winnicott del bambino cui non si è insegnato a giocare, che sarà un adulto incapace di lavorare. Poi ancora al Freud delle pagine de “Il disagio della civiltà” quando scrive: ‘Nessun'altra tecnica di condotta della vita lega l'individuo così fermamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro, perché il suo lavoro gli guadagna almeno un posto sicuro in una porzione di realtà, nella comunità umana’ (Freud 1929). Sottolineo che Freud qui, pur parlando di ’comunità umana’, parla non solo di ’realtà esterna’ ma anche di ’realtà interna’ perché il ‘posto sicuro’, guadagnato nella ‘comunità umana’, consegue all'evidente miglioramento del contatto con la propria realtà interna, oltre che all'incontro vitale con l'altro da sé.
MB: Quali concezioni aveva all’epoca rispetto alla possibilità di trattamento di pazienti psicotici?
EMI: Gli psicoanalisti da sempre hanno posto la distinzione fra la patologia nevrotica (edipica) e quella psicotica (preedipica). Già S. Ferenczi si poneva il problema della dimensione non-nevrotica, rispetto alla quale chiedeva insistentemente a Freud di riprendere la sua analisi interrotta, ed entrare nelle proprie dinamiche preedipiche. Freud stava portando avanti la sua scoperta di una nuova psicologia sulle vicende edipiche e quindi non aveva interesse per cose ancora più sconosciute. Ferenczi quindi andò avanti da solo, meglio dire indietro, verso il preedipico, con i suoi pazienti più gravi. E' da qui che nasce, nelle ricerche psicoanalitiche il tema dell'eventuale allargamento del nostro modello di cura per le patologie non nevrotiche. Problema che recentemente è presente con massima attenzione nella S.P.I. Ferenczi fu ignorato per lungo tempo e solo da qualche decennio i suoi scritti sono tornati ad essere letti. Freud, che non ebbe mai desiderio di entrare nel pur vicino Ospedale Psichiatrico di Vienna, non avrebbe voluto parlare più di tanto delle psicosi. Eppure ci ha lasciato una interpretazione preziosa dei disturbi psicotici con lo scritto sulla autobiografia del Presidente Schreber, segnalatagli da Jung. A mio parere, anche il caso di Schreber è una testimonianza di come la mente possa rientrare dalla psicosi investendo su una attività di lavoro: in quel caso una attività di scrittura, scoprendone la vocazione e la capacità. Fu così anche nel caso di uno dei più noti fra i pazienti di Freud: il caso dell'uomo dei lupi.
L'esperienza che andavo facendo nella Cooperativa con pazienti non nevrotici, mi portò a riflettere sui fattori di cura. Freud non ha mai detto che la cura psicoanalitica fondata sulla interpretazione e con un setting ben definito, fosse da applicare con pazienti psicotici. L'esperienza di Parigi, da Jean-Martin Charcot, fu fondamentale per pensare alla cura delle nevrosi, quelle isteriche in particolare. Mi andavo convincendo che parlare di cura per le psicosi, non significava affatto avere come finalità la guarigione, intesa come ritorno alla salute, che la medicina vede come fine della terapia. Avendo un orientamento psicoanalitico, il mio pensiero fin dall'inizio andò sulla necessità di una rilettura delle famose pagine freudiane sui ‘destini delle pulsioni’ originarie, per vederne le eventuali possibili ‘trasformazioni’. Nel contatto con la cultura manicomiale, del tutto repressiva, mi veniva a mente ciò che scrive Freud quando per trovare caratteristiche generali delle pulsioni sessuali, dice che ‘esse sono molteplici, traggono origine da svariate fonti organiche, si comportano dapprima con reciproca autonomia e soltanto in seguito pervengono contemporaneamente a una sintesi più o meno completa’ (Freud 1915, 36). Le pulsioni sessuali, dice quindi Freud, sono caratterizzate dalla loro capacità di esprimersi in azioni vicarianti ed inoltre per la facilità di cambiare i propri oggetti. Per tali caratteristiche sono in grado di passare ad azioni molto lontane dalle mete e dagli oggetti originari. Pensando alle trasformazioni Freud pensa che l'esistenza trovi nelle pulsioni originarie la fonte e la spinta iniziale di ogni azione umana, ma ipotizza anche che le pulsioni potrebbero avere alcune trasformazioni e anche più di una, definendole ‘pulsioni di giuoco, di distruzione, di socialità’ (Freud 1915, 19). Tutto ciò è un ritornare nel vivere, ma è qualcosa che non ha nulla a che vedere con il concetto medico di guarigione.
Ma come definire e concettualizzare la pulsione di cui vedevo l'esistenza con un diverso oggetto e un diverso soddisfacimento nei pazienti che, negli anni vennero sempre più numerosi, nella Comunità-Cooperativa? L'energia originaria in quei pazienti era stata sottoposta ad una grande restrizione. I loro nuovi comportamenti nella Comunità, aperta ad una possibile attività di lavoro liberamente scelto e diretta verso una nuova meta ed un nuovo oggetto di soddisfacimento, mi fecero supporre una ritrovata energia e quindi sentivo necessaria una nuova elaborazione concettuale. Dove questi cambiamenti portano il pensiero analitico? La risposta alla domanda su cosa potesse fare uno psicoanalista, per pazienti la cui giornata si svolgeva da anni nel fare nulla e nel pensare nulla sul tempo futuro della loro vita, è, come detto prima, nelle pagine su ‘Pulsioni e loro destini’. Da quelle pagine iniziai a concettualizzare le mie risposte teoriche ed a parlare di pulsione di lavoro. La psicoanalisi si è spinta sempre più verso la frontiera, ci ha insegnato che bisogna pur fare e pensare qualcosa, quando ci si trova di fronte al non ancora comprensibile.
Per prima cosa pensai che la terapia per quei pazienti dovesse essere volta al trovare un fare per avvicinare, mente e corpo, al tempo futuro, allo scorrere del tempo.
Mi piace concludere questa intervista con Martina Balbo citando ancora Freud, che scrive a proposito del mettere insieme l’esperienza con la teoria, dicendoci che quest’ultima ha la ‘prerogativa di fondarsi su nozioni precise e logicamente inattaccabili; al contrario si accontenterà di buon grado di alcuni sfuggenti e nebulosi principi di fondo…Questi principi non costituiscono infatti la base della scienza sulla quale poggia tutto il resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono sostituire senza danneggiarla’ (Freud 1914, 21-22).
Certamente sono state queste le parole di Freud che mi hanno sostenuto nei vent’anni di esperienza psicoanalitica nella Istituzione pubblica ospedaliera e che ancora oggi mi sostengono nella stanza d’analisi quando incontro pazienti psicotici. Spero comunque di non aver costruito principi soltanto “sfuggenti e nebulosi”.
Bibliografia
Freud, S. (1914), Introduzione al Narcisismo. In Opere vol. 7 Boringhieri, Torino.
Freud, S. (1915), Metapsicologia. In Opere vol. 8 Boringhieri, Torino.
Freud, S. (1929), Il Disagio della Civiltà. In Opere vol. 10. Boringhieri, Torino.
Freud, S. (1937), Analisi Terminabile e Interminabile. In Opere vol. 11. Boringhieri, Torino
Freud, A. (1958), Prefazione a Freman, e al. Schizofrenici Cronici. Boringhieri, Torino.
Jaques, E. (1970), Lavoro, creatività e giustizia sociale. Boringhieri, Torino.
Izzo, E.M. (1990), La Riabilitazione fra lavoro interno e lavoro esterno. In ‘Riabilitazione psicosociale (a cura di L. Burti e al).