Cultura, cinema e arte

Quella Zone of Interest a un passo da Gaza. Il regresso che si oppone al progresso. Una recensione di Flavia Salierno (CPdR)

"Altri Olocausti sono in agguato se non creiamo continuamente la strada del ricordo e della riflessione".


Quella Zone of Interest a un passo da Gaza. Il regresso che si oppone al progresso. Una recensione di Flavia Salierno (CPdR)

Quella Zone of Interest a un passo da Gaza. Il regresso che si oppone al progresso.

di Flavia Salierno

 

Nel vissuto spettrale che proviamo nel restare inermi e impotenti di fronte alle devastazioni delle guerre in Ucraina e in medio Oriente, le nostre vite continuano nell’apparente normalità. Inframezzata da alluvioni e possibilità di attentati. Ma andiamo a fare la spesa, lavoriamo, ci preoccupiamo per le nostre piante, i fiori. I fiori, ecco, quelli. Gli unici primi piani del film-capolavoro di Glazer, The Zone of Interest, sono proprio sui fiori. È una scelta, quella del regista britannico, di evitare i primi piani sugli attori. L’intento è quello di porre lo spettatore come osservatore indiretto di normali scene quotidiane familiari. Distanti, guardiamo con maggiore distacco calandoci nella quotidianità dei protagonisti. A proposito di quotidianità, la nostra, accendiamo il televisore e, mentre cuciniamo, ci arriva il suono dei bombardamenti e le urla di persone devastate dal senso di smarrimento e dalla sofferenza. Alla stessa stregua, guardando il film di Glazer, veniamo catturati dalle dinamiche di coppia dei due protagonisti, moglie e marito, alle prese con la costruzione della casa dei loro sogni e con la gestione dei figli e del giardino di casa. Ma una fetta della nostra mente è continuamente concentrata sui rumori, quelli delle ciminiere del campo di concentramento accanto alla magnificenza della casa dei due. Lo stato dissociativo conseguente è volutamente indotto e pervasivo.

La nostra mente sappiamo quanto riesca a fare questo. Da una parte, a mandare al rogo e a morire i propri simili con la freddezza con cui si possono costruire macchine. Dall’altra, preoccuparsi per lo stato di salute della serra nel proprio giardino e della bellezza del mobilio che arreda una casa.

Nella zona di interesse, tutto scorre, nel diniego. Quella capacità che l’uomo ha di difendersi da ciò che non vuole vedere, né sentire.

All’incontro col regista che si è tenuto alla Festa del Cinema di Roma, Glazer ha raccontato il suo film, che aveva già vinto al Festival di Cannes 2023. Martin Amis è l’autore del libro a cui il regista si è liberamente ispirato. “Uso leggere il libro solo una volta, per darmi la possibilità di essere il più libero possibile nel costruirci intorno”. E Glazer lo ha fatto cercando di asciugare le scene, rendendole fredde, spettrali.

“Dieci macchine da presa che riprendono contemporaneamente rendono la scena più vera e mettono lo spettatore in una posizione più critica”, dice il regista. Come se spiassero dal buco della serratura questa normale, tranquilla famiglia tedesca. L’Olocausto guardato dal punto di vista di chi ha commesso i crimini più terribili della storia dell’umanità. Almeno, fino ad ora, viene da aggiungere. Come ci piace spiare nella casa del Grande Fratello, così ci troviamo a farlo in quella accanto ad Auschwitz. Rudolf Hoss e sua moglie Hedwig potrebbero essere i nostri, tranquilli, vicini di casa. Se non fosse che lui è un comandante nazista e il cartellino, la mattina, quando esce per recarsi al lavoro, lo timbra all’interno del campo di concentramento, organizzando lo sterminio di massa di gente inerme e innocente.

La “zona di interesse”, “interessengebiet” in tedesco, era quell’area di 40 chilometri quadrati immediatamente circostante al complesso di Auschwitz. Ma anche lo spazio dove si estendono gli interessi convergenti della coppia di protagonisti, o simbolicamente il muro di cinta del diniego che separa quello che succede lì a fianco. Nella zone of interest del film, la realtà diviene il suo opposto. Orrore e normalità si capovolgono e confondono chi le guarda. Il cinema del reale ci porta a confonderci coi cattivi e a navigare nelle nostre stesse acque della mostruosità. In fondo, non siamo così dissimili dai nostri simili. Capiamo che altri Olocausti sono in agguato se non creiamo continuamente la strada del ricordo e della riflessione.

Solo nelle ultime settimane quasi 10000 vittime nel conflitto in medio oriente. E io sono comodamente in casa, davanti a una tazza di tè e al mio computer. Dove sto scrivendo, e dove si affaccia sempre più l’ipotesi che l’intelligenza artificiale sostituirà persino il lavoro dello psicoterapeuta. Viene da chiedersi cosa sia il progresso, a questo punto.

Anche all’interno del campo di concentramento venivano invitati rinomati ingegneri con l’intento di creare i forni migliori e tecnologicamente più avanzati per perseguire l’obiettivo di eliminare più persone in minor tempo possibile. The Zone of Interest è il metodo scientifico con cui venne architettato e attuato lOlocausto, e mostrato nel circuito chiuso che vede tutto quello che accade (nulla, apparentemente) nella abitazione degli Höss. I figli corrono e giocano nei corridoi e nelle stanze, mentre la ciminiera sullo sfondo getta fumo nero e cenere che si insinua nei canali respiratori. E viene espulso con tosse nera. La spietatezza composta e asciutta di Glazer ci butta in faccia quello che siamo al di là del nostro apparire esseri evoluti, continuamente orientati al progresso, appunto.

Che non è certo, tutto, solo così. Navighiamo nel mare magnum delle informazioni e sappiamo cosa fanno i nostri simil in Nepal o in Tanzania anche grazie al progresso e, anche grazie al progresso, il covid ha fatto meno paura. Ma non è riuscito ad evitare l’escalation assurda in medio oriente. Possiamo definirla istinto di morte e, per questo, non ce ne libereremo mai.

Lo schermo nero all’inizio del film, di cui non so più dire la durata, ha fatto in modo di pulire il campo dalle immagini e dai rumori coi quali siamo entrati nella sala per vedere The Zone of Interest. Ha preparato il terreno per fare in modo che si aprisse ai suoni e alle immagini nude e crude del film. “Quelle immagini sostengono il film”, dice Glazer. E i film non sono, sempre, finzione, aggiungo io. Chissà se il cosiddetto “progresso” ci porterà, un giorno, a fare pace con la violenza che ci caratterizza. A trovare una mediazione definitiva. Ma forse questo è un altro film, e forse di fantascienza. Intanto rendiamo grazie al cinema, soprattutto a quello che aggiunge, togliendo. In questo cinema, non c’è bisogno di vedere i cadaveri, per saperne l’esistenza. Dell’orrore non viene mostrato nulla, bastano i suoni a stimolare l’immaginazione e darci la sensazione di angoscia continua.

La bellezza della casa del comandante nazista e della sua famiglia viene assicurata dai detenuti ebrei che ne curano i dettagli, con lo sguardo basso e nel silenzio. Mentre, da fuori, sono le urla degli altri detenuti, a romperlo. Quello che resta nello spettatore è un senso di rottura psicotica, di follia delirante, al di là dell’apparente, banale, normalità.

La straniante, perturbante, tutta umana, banalità del male.

 

 

 



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