27 ottobre 2023 - settimo incontro del ciclo.
Cambiamenti nel pensiero psicoanalitico e mutamento dei nostri pazienti, uno sguardo sulle nuove declinazioni della clinica psicoanalitica.
Attraverso gli interventi del dott. Massimo Vigna Taglianti e del dott. Giuseppe Moccia, abbiamo allargato lo sguardo sulle nuove declinazioni della clinica psicoanalitica.
Un significativo cambiamento nel pensiero psicoanalitico è stato legato, soprattutto negli ultimi quarant’anni, al mutamento dei nostri pazienti: non più solo ingaggiati dai conflitti delle relazioni oggettuali interne, ma privi di sufficiente senso di sé e dunque alla ricerca di vitalità e appropriazione della propria esperienza esistenziale. Già Winnicott e Bion avevano cercato di fare luce sulla varietà degli stati dell’essere, sperimentati o meno dal paziente e l’analista e, sulla sua necessità di essere e diventare il più possibile sé stessi.
In quest’ottica il sintomo diviene un prezioso alleato, il miglior compromesso possibile per gestire il dolore psichico, un veicolo di comunicazione inconscia e una domanda di aiuto da significare. (M. Vigna Taglianti)
Nel solco del pensiero di Ogden, la formazione dei sintomi è un mezzo attraverso il quale i pazienti mettono in pausa il problema della crescita e l’entrata nell’essere. Il sintomo è dunque qualcosa da vivere e rivivere nel processo analitico per permettere la rappresentabilità di quegli snodi di sofferenza che hanno segnato la vita del soggetto che chiede aiuto. In questo senso, ciò che appare a primo acchito resistenza all’analisi o transfert negativo nei confronti dell’analista, altro non è che paura di ripetere ciò che ha causato, l’arresto evolutivo, il trauma, il dolore psichico. Ripetizione e Enactment sono dunque espressioni di agieren, che anticipa la rappresentabilità degli aspetti più dolorosi dell’esperienza del soggetto (M. Vigna Taglianti).
La patologia attuale è infatti più identitaria che “della rimozione”, e questo, ha prodotto nel movimento psicoanalitico, uno sforzo per stabilire quali siano gli invarianti su cui puntellare la necessaria estensione del metodo alla clinica.
Con i pazienti non nevrotici, viste le loro incertezze identitarie, quasi mai l’adesione alle regole del setting e l’abbandono alle libere associazioni sono immediati; il paziente teme, senza poterselo ancora rappresentare, di ripetere, nella relazione analitica, le precoci esperienze traumatiche vissute.
Queste esperienze, male integrate, trovano espressione attraverso l’azione, nel rapporto con l’analista e il setting e ci costringono, non solo a una estensione dello stesso ma a un mettersi in ascolto di tutte le forme associative del paziente
I livelli della rappresentazione non simbolica, quelle che oggi definiremmo memorie identificatorie (H. Loewald), tendono a ripetersi inconsciamente nel modo di comportarsi; in parte sono il materiale dei sogni e si riproducono in azione nell’identificazione proiettiva, nel transfert, nell’enactment. (G. Moccia).
Freud nel ‘14, riferendosi alla molteplicità dei possibili formati mnestici, prendeva in considerazione anche contenuti psichici non rimossi, nuove impressioni, non rappresentate e che avevano lasciato traccia, solo nell’ES. (Freud, ’14).
Memorie emotive relative alla relazione primaria con l’oggetto e ai suoi funzionamenti, che pongono i pazienti nella aspettativa preriflessiva di una continua ripetizione traumatica e li costringono a organizzarsi in modo difensivo per evitare il ripetersi del trauma, ma allontanandoli da un’esistenza autentica e umana.
Sul dispositivo si trasferisce il rapporto del soggetto con la simbolizzazione…il transfert della storia del soggetto in rapporto alla simbolizzazione… dei suoi traumi specifici (R. Roussillon).
Ciò deve quindi spingere a valutare la possibilità e la necessità dell’interpretazione di questo transfert, pena il fatto che essa stessa sia vissuta dal paziente come una nuova violenza. Dunque la situazione analitica deve essere prima ambiente di holding, perché l’interpretazione, in tutta la sua potenza mutativa, possa esprimersi, senza essere traumatizzante.
L’elaborazione del transfert, dunque, è senza dubbio una delle invarianti su cui fondare il lavoro analitico nelle estensioni della clinica; un transfert bidimensionale (A.H. Modell 1990, R.D. Storolow. e G.Atwood, 1992) ripetitivo, ma anche evolutivo nella sua funzione di riconoscimento e legittimazione degli stati interni del paziente, che li differenzi dalle attribuzioni dell’oggetto intrusivo, sciogliendo così i dubbi e la confusione identitaria (G. Moccia ), un transfert positivo irreprensibile come definito già da Freud nel 1912.
Accanto ad esso agisce tuttavia il bisogno di ricreare le esperienze passate adattative e funzionali al mantenimento del legame con l’oggetto traumatico, per garantire il dominio della realtà e proiettare nei rapporti, l’azione tossica delle identificazioni alienanti con l’oggetto intrusivo. (G. Moccia)
Un paziente che inizia l’analisi, al netto della sua organizzazione difensiva, nutre la speranza che l’esperienza oggettuale con l’analista sia nuova, di riconoscimento, sostegno e regolazione delle emozioni, come mai sperimentato in precedenza.