Un’adolescente si suicida dopo aver guardato video di suicidi sui social. Colpa del dispositivo o della società contemporanea? Pensare la complessità…
Non potete capire il dolore che si prova quando non si ha un corpo,
quando non si hanno limiti. E non si può morire
F.Guattari. Un Amour d’UIQ
Suicidio da social. Dramma della contemporaneità o responsabilità dei social media? Negli Stati Uniti una ragazzina, un’altra di una lunga lista, si toglie la vita dopo aver guardato a ripetizione centinaia di video “on suicide”. Filmati di pochi secondi che scorrono su TikTok. Tutti uguali, solo che al posto dei balletti va in scena l’autodistruzione. E così se ne discute al Congresso degli Stati Uniti, dove Shou Zi Chew, amministratore delegato del popolare social media cinese è stato convocato in audizione: si è difeso rovesciando la questione: è la società di oggi che genera solitudine, immagini idealizzate e inarrivabili da raggiungere, pressione inaudite verso performance onnipotenti: la colpa è della “pistola” (in questo caso TikTok)? O di un mondo contemporaneo che non dà agli adolescenti uno spazio in cui consentirsi di esistere… se non suicidandosi su un social?
Su una vicenda di questo tipo si scatena una quantità di fantasie e una tale intensità emotiva che il rischio è fare gli psicoanalisti seri, i giudici e i censori. Non importa di quale fazione o interpretazione: TikTok infrastruttura indispensabile della post-modernità, veicolo di espressione di una nuova maniera di fare esperienza dell’umano; oppure social come “sintomi” di una viralità dilagante, dove allo scambio intersoggettivo - e al significato costruito e condiviso dentro un incontro - si sostituisce una “reaction” impersonale, emoticon al posto di emozione, che diffonde ed espande frammenti di materiali… che però restano a metà tra un’azione, uno sfogo e un tentativo di comunicazione a chissà quale Altro, perso nel cyberspazio; e ancora, funzionamento di un’adolescenza disperata e disincarnata, priva di corpo, in simbiosi con gli algoritmi.
Insomma su questo tema si rischia di dire troppo, dire male, non dire nulla. Paul Preciado, nel suo ormai noto intervento all’ École de la Cause Freudienne, invoca una psicoanalisi mutante. Si può partire da qui, con in mente una psicoanalisi delle mutazioni antropologiche, ma limitandosi a raccontare un’altra storia. Una storia che deve essere presa come una libera associazione alla vicenda dei suicidi da Tik Tok.
E’ “UIQ”: una sceneggiatura mai divenuta un film. L’autore si chiama Felix Guattari, che l’ha scritta negli anni Ottanta, quando il nostro presente era solo fantascienza.
Guattari nel suo UIQ, pensa un film sci-fi e anticipa in modo visionario l’attualità di internet. UIQ è un “infra-verso”, qualcosa di molto potente. UIQ è una sorta di potente vibrazione che viene “isolata e codificata”, è energia forse, ma viene messa in un computer dove le manca un corpo. Ecco come Guattari la presenta. “Una soggettività macchinica, iperintelligente e tuttavia irrimediabilmente infantile e regressiva impersonificata in UIQ, Un’entità che non ha né delimitazioni corporee fisse, né personalità costante né tantomeno orientamento sessuale predefinito. L’intrusione di questa dimensione macchinica, nelle soggettività ordinarie produrrà sconvolgimenti su scala planetaria” (pp, 69-70)”. Sembra di sentire la personificazione della “Rete”, di una “Internet” presa-a-soggettività.
Cosa ne è del corpo alle prese con questa infezione, con questa diffusione virale, che Guattari chiama UIQ? È un’infezione che ricorda il procedere rizomatico di un virus, che ricorda l’inconscio stesso, le concatenazioni spinoziane, se non fosse che è “solo un codice” a cui manca e continua a far difetto il corpo. UIQ, come i social, come internet, sono virtuali perché sono tutti costruiti su un piano trascendente, tanto da poter essere pensato come un dispositivo “disincarnato” (Il postanimales, F. Cimatti 2021). Questa intrusione disincarnata produce soggettività bidimensionali. Qui vengono in mente quei milioni di video di balletti e di corpi di ragazzine, che sono immagini di corpo e che mai avranno corpo…
L’intelligenza del dispositivo virtuale non può che rimanere disorientata rispetto alle passioni umane. Non conosce nessun corpo carnale.
Eppure, non si può liquidare il fenomeno come qualcosa di patologico senza prendere sul serio la funzione che svolge e il significato che evoca. Questi dispositivi dispiegano alcune funzioni. Come se le immagini “tappassero” qualcosa e così sostituissero una dimensione del corpo, dando l’illusione immaginaria di una neo costruzione di soggettività.
Nei nostri studi, così come per le strade, al bar, nelle scuole e negli uffici, assistiamo a una sorta di “rivalsa dell’inconscio”. L’inconscio non perde mai. Questa rivalsa la si potrebbe rappresentare anche come un costante tentativo di adottare soluzioni psichiche, alcune ben efficaci, ben furbe, ben temperate: nel senso che come un clavicembalo sono “accordate”, cioè risolvono – o provano a risolvere - un problema. Eccole le soluzioni, ce ne è una lunga sfilza infinita, più o meno simpatiche. In ordine sparso: una droga, una canottiera che sennò poi prendo freddo, la ninna nanna di mamma, un farmaco, un comportamento rituale, le canzoncine dei bambini la notte, se hanno paura. Una sigaretta. L’ultima sigaretta… un’altra sigaretta…
Ma ogni soluzione, se comunque affonda nell’Inconscio, non potrà che realizzarsi rimettendo in discussione, cioè provando a dislocare, le regole del dispositivo dentro il quale è emersa.
Anche la psicoanalisi ha il suo dispositivo “clinico” che prova a trasformare l’inconscio in oggetto del proprio sapere. Noi ci muoviamo costantemente “tra” la necessità di un’organizzazione, di un disporre, e la continua spinta a mettere in discussione, disturbare, contaminare, dissipare, creando una crepa che in qualche modo scompagina ogni tentativo di trovare una forma definitiva. Insomma, a voler essere blasfemi: come la psicoanalisi, la sua metapsicologia e il suo “setting” creano le condizioni per l’emersione di quello che chiamiamo “Inconscio” o anche “Inconsci”, così con le debite differenze, anche TikTok...
A ben vedere diversi tipi di dispositivi, anche prima di internet, hanno sempre fatto parte dell’umano. L’uomo è sempre stato duplice: da una parte si è impossessato del mondo attraverso un pensiero trascendente che struttura vita e corpo, ma anche fissa, dall’altra è immerso in un’immanenza incarnata che si fa pensiero e affetti, qualcosa che non smette di pulsare la vita corporea e di sovvertire la struttura, anche in modo sgangherato. Inoltre, sembra ci siano forze che hanno terrore dei corpi come se il corpo fosse sempre ciò che deve essere governato.
Ma quale è il problema di un dispositivo come TikTok? Torniamo alla storia di UIQ: la protagonista del film di Guattari si chiama Janice. “Janice, accettando di farsi fagocitare dal desiderio incestuoso della trascendenza sarà condannata a una deriva senza fine, esiliata per sempre dagli affetti umani” (p. 70). Il che ricorda tant* di noi, non solo giovani: il corpo stesso desidera e cerca qualcosa fuori di sé, desidera un oggetto, entra nel meccanismo della trascendenza.
E’ il mondo delle immagini, dei desideri pre-confezionati, di un sociale subdolo. Di ruoli di figli, di mogli, di padri. Di sembianti che ci indicano gli ideali a cui tendere e si nutrono dell’energia dei corpi umani, come tanti cervelli connessi e immersi in una vasca, in pieno stile Matrix: gli algoritmi sfruttano l’energia incarnata delle soggettività e sfruttandola ne disattivano la portata potenzialmente sovversiva ed eccentrica rispetto al dispositivo.
Ma la vita proprio perché corporea è mortale per forza di cose. Il corpo nei social non può morire. È mediatizzato e immortale. Ma non vivo. Lo dice bene proprio UIQ “Non potete capire il dolore che si prova quando non si ha un corpo, quando non si hanno limiti. E non si può morire” (p. 210).
Janice non riesce a riprendersi la propria morte, ovvero la sua pienezza di vivere. Rimane non morta, questa incarnazione della Rete, non viva… e alla fine del film si aggira come una zombie internettiana.
“Janice si butta giù dal tetto. Il suo cranio colpisce il cemento con un tonfo sordo. Una pozza di sangue si espande intorno al suo corpo.
Janice si rialza, si passa la mano sulla testa e riprende a camminare.
Janice (in tono neutro). Che le si restituisca almeno la morte” (pp. 232-233).