Attualità e nuove sofferenze

Rimetti a noi i nostri debiti… Dialogo con il Ministro Roberto Cingolani.

L'accelerazione tecnologica, l'ambiente, le disuguaglianze


Rimetti a noi i nostri debiti… Dialogo con il Ministro Roberto Cingolani.

 

 

 

 

di Chiara Buoncristiani

 

Proponiamo l’intervista a un politico, che è anche uno scienziato, e affronta il tema dei tre “debiti” del progresso. Tutti hanno molto a che fare con la psiche. Consapevoli della difficoltà del dialogo, ma fiduciosi che dallo “spaesamento” possa nascere un’apertura.   

 

 

“C’è un debito ambientale, nei confronti del pianeta. Un debito socioeconomico, per via delle disuguaglianze tra popoli e condizioni di vita. E c’è un debito cognitivo. Siamo sovraesposti agli stimoli. Non metabolizziamo più”. Parola di Roberto Cingolani. Fisico, a lungo direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia, prima di essere ministro per la Transizione ecologica, ha pubblicato “Prevenire”, dove analizza i costi di un’accelerazione senza uguali nella storia. Qui ragiona sulle condizioni di possibilità per la nostra sopravvivenza. Perché ci sia ancora un futuro – sembra essere il messaggio - urge un nuovo pensiero per le nostre azioni. Un nuovo modo di fare ricerca, politica, lavoro, relazione. Nell’implicito si delinea un modello che includa il prendersi cura dell’altro da sé? Proprio su questo abbiamo voluto interpellarlo.

Nel 1952 il Nobel per la pace Albert Schweitzer disse: “L'uomo ha perso la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che distruggerà la terrà”. Lei ha chiamato proprio “Prevenire” il suo libro. Come mai?

Solo chi può riflettere e fare connessioni sulle informazioni può tradurle. Se ci riesce ne ricava uno “storico”, in cui le informazioni sul passato sono ordinate con un senso. Da questa analisi nasce la possibilità di prevedere le conseguenze delle nostre potenziali scelte e quindi quella di prevenire, cioè proteggere...

Nel nome del progresso, negli ultimi 20 anni, l’uomo si è illuso di poter essere una specie di Dio del proprio mondo, “senza limiti” e senza relazioni di dipendenza con il suo ambiente. Con quali conseguenze?

Ci sono due livelli. Partiti alla pari con gli altri animali, Sapiens è l’unica specie che ha potenziato le sue prestazioni. Ha più che raddoppiato la sua aspettativa di vita e ha proliferato. Lo chiamiamo progresso ma è la capacità umana di creare. Abbiamo cominciato a creare utensili e siamo finiti a inventare macchine per volare sulla Luna, computer, medicine. Nessuno può dire che il progresso sia in sé sbagliato.

L’altra faccia della medaglia?

Che il progresso altera gli equilibri del sistema e genera disuguaglianze. Pensiamo alle condizioni di assoluta indigenza di certe aree del mondo o di certi strati sociali, al fenomeno delle migrazioni, ma anche a quello che rischia di essere lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del Terra. Sono “debiti” nostri, li abbiamo prodotti noi con le nostre scelte anche inconsapevoli.

Ci difendiamo dalla coscienza degli effetti delle nostre scelte, come quelli che stiamo vedendo nell'ambiente e in tanti fenomeni psicosociali. Ora sta facendo irruzione quello che avevamo seppellito in un “altrove”

Ogni azione è collegata al resto del sistema e genera uno squilibrio: il progresso crea un problema di sostenibilità mentale, globale, ambientale e socioeconomica. I vincoli da considerare riguardano i nostri limiti mentali, la disponibilità dei suoli, la bio-capacità del Pianeta, la quantità di acqua, cibo, energia. Per rispettarli servono approcci che vadano oltre le visioni “uniche” di crescita economica, il Pil, che valutino diversamente il livello di felicità delle persone. Uno dei pilastri della sostenibilità è che, se continui a produrre, avrai il problema di che fartene dei residui di un processo di produzione.

Già, c’è sempre uno scarto da considerare, che si deposita nel pianeta, negli altri esseri umani e nella nostra stessa possibilità di elaborazione psichica…

Serve una nuova metrica. Gli ultimi anni hanno avuto una crescita esponenziale dell’innovazione. Ora ci accorgiamo dei risultati anche negativi. In passato avevamo tempo per metabolizzare. Le tecnologie più recenti, digitali, sono invece cresciute a tale velocità da non lasciarci il tempo. Con il paradosso che nessuno sta al passo. Non ce la fanno i lavoratori, ma neanche le leggi condivise, la pubblica amministrazione e l’apparato statale.

Per non parlare dell’apparato psichico… Rischiamo di essere “intasati” dalle nostre stesse creazioni?

Ai primi dell’Ottocento a New York si era creato il problema sanitario dello sterco dei cavalli. Per risolverlo convocarono una conferenza internazionale con i migliori scienziati dell’epoca, ma si arresero. Poco dopo però fu inventato il motore a combustione interna: sembrava una soluzione magica. Questa magia oggi è alla base dell’inquinamento atmosferico ed è emblematica. Ogni nuova tecnologia risolve un problema, ma pone nuove condizioni al sistema. Se non includiamo le conseguenze delle nostre scelte, i nuovi problemi potrebbero essere peggiori di quelli risolti. Prevenire significa fare un’analisi dell’altra faccia della medaglia, di cui al momento non sappiamo, compresi i casi di uso eccessivo o cattivo uso di una soluzione. Ma anche questo tipo di modello fa parte del progresso.

Ma se è vero quello che diceva prima, anche in questo modello, per quanto analizzi e rendi conscio quello che non lo era, ci sarà sempre sempre un resto che oggi sfugge…

Io uso il concetto di “connettoma”: le connessioni aumentano la capacità di elaborazione e la flessibilità. Questo si applica alla nostra mente, ma anche alla società dei Sapiens: chi ha la fortuna di vivere in un ambiente stimolante e accogliente è avvantaggiato perché diventa una creatura più aperta. Tutto questo però entro certi limiti. Ogni progresso può contenere in sé il prossimo debito.

Il “debito” segnala lo scacco del nostro stesso il funzionamento psichico, in alcuni casi fino al punto di paralizzare la capacità di pensare e trasformare emotivamente la realtà?

Bisogna distinguere tra l’esposizione a tanti stimoli e l’esserne completamente invasi. Il problema di oggi è questo: se l’informazione fosse luce, oggi ne saremmo completamente abbagliati. Diventa sempre più difficile metabolizzare lo shock di un futuro che incalza…

Il futuro non c’è più, c’è solo l’istantaneo?

Il tempo che un’informazione impiega per passare da un capo all’altro del mondo è lo stesso di un comando dal lobo frontale del cervello alla punta dell’apice. Le informazioni ci sommergono a tale velocità che hanno perso la capacità di autorevolezza. Non controlliamo più le fonti

L’eccesso fa sì che gli stimoli che arrivano dalle “fonti” non siano trasformabili, il soggetto non se ne può riappropriare. Forse non può apprendere perché non è “lì” a fare esperienza?

Se vedo il video di un’operazione chirurgica, non divento un chirurgo, non ho interiorizzato la chirurgia. In rete trovo questo flusso indifferenziato, lo scibile globale si trova in teoria lì. Ma c’è un sovraccarico di informazione non strutturata. Su cui non ho il tempo di imparare né di metabolizzare. Vale per le società e per l’individuo.

Se l’eccesso mette fuori gioco la mia capacità di divenire “soggetto” e fare lavoro psichico si può “limitarlo”?

Internet è un diritto universale. Tutti devono accedere con le stesse opportunità all’informazione: è l’autostrada che va garantita. Ma su questa strada non si può correre a 350 all’ora. Il problema è come l’informazione viene prodotta, chi la produce, come viene usata.

La sovraesposizione può essere usata dalla mente come modo per non pensare. Un modo per “tappare” il pensiero sostituendolo con l’accumulo di dati?

Di nuovo il problema è come siamo in grado di fare nostro lo stimolo, di possederlo. Lo stress informativo genera un debito cognitivo. Oggi c’è chi con 180 caratteri pensa di dichiarare guerra a un nemico. Sarà difficile incontrare menti che possano leggere un’intervista di questo tipo, così complessa e articolata. Lì la complessità non comunica, ma la realtà da considerare è anche questa… 

Forse però non si tratta di un debito solo cognitivo. C’è una codifica incarnata, affettiva, in ogni processo mentale. Nella processualità psichica, affetti e memorie sono “il codice”. Che ne pensa?

Certo! L’informazione viene trattata a partire dalla “base” che ciascuno di noi ha e da cui non possiamo prescindere. Il corpo è la “base”. Non possiamo dimenticarci la nostra natura di animale sociale, perché è dalla “base” che partiamo per protenderci verso il mondo.

A proposito di corpo e “base”, il piccolo di uomo non sarebbe al mondo senza la presenza di qualcuno che se ne prende cura...Come la mettiamo quando la presenza è quella di uno schermo e la relazione diventa una connessione “virtuale”?

Esaminiamo un comportamento che si vede soprattutto nei giovani: sono in quattro a tavola, ma non parlano, ognuno sta solo con il suo telefonino. Tramite i social e le app ciascuno di loro è in contatto - volendo - con milioni di persone. La sensazione è di essere connessi con il mondo. In realtà però non riescono a parlare con chi sta loro di fronte. Questa dematerializzazione è uno degli aspetti su cui riflettere.

Lei è una creatura “social”?

Per niente. Non so se sia patologico, ma non sopporto nessun tipo di intermediazione, tanto più da un oggetto inorganico. Però le nuove generazioni sono nate intermediate. Preferiscono scrivere un messaggio che parlare a voce.

Che però non potrà mai surrogare il bisogno dell’infans di un contatto pelle a pelle, di un’altra psiche che lo apra il mondo dei significati umani. O no?

Questo non potrà mai essere intermediato. Però, è una realtà che la gente si innamori tramite schermo, gli schermi accendono la biochimica dei corpi. Ovviamente non sono gli schermi a farlo, ma le persone che ci stanno dietro, ma questo produce conseguenze, perché nel frattempo il nostro connettoma sta crescendo tramite schermo. Il Covid ha fatto da acceleratore. Questo non è necessariamente patologico, o per lo meno non so se lo sia - ci siamo adattati a tanti altri cambiamenti – ma è il problema da studiare oggi.

Tutto dipende da chi c’è al di là dello specchio. Lo schermo può intermediare gli scambi psichici, ma può anche favorire l’abbandono di una vera relazione con l’altro…

Anche tutto questo odio che si libera nell’anonimato e nella non conoscenza di chi viene attaccato in rete. Prendiamo gli haters. Scatenano una violenza, attacchi che prima eravamo abituati a mediare, perché c’erano delle regole di co-esistenza. Invece il fatto di essere dis-intermediati - di avere un oggetto inorganico in mezzo, che si frappone tra noi e l’altro - ci dà l’illusione di poter dare sfogo a tutto, perché tanto “non paghiamo”, non abbiamo più vincoli. Come se non ci fossero le conseguenze. Questo è devastante. Perché poi qualcuno più debole ci casca e si suicida e allora bisogna farsi qualche domanda. Alla fine, l’impatto sull’essere umano, sul suo corpo e sulla mente c’è…

Abbiamo piegato l’ecosistema ai nostri bisogni. Abbiamo ideato protesi cui deleghiamo una serie di funzioni, ma ci troviamo a dipendere da queste per portare a termine ogni nostra attività. Non è alienante per l’essenza dell’umano?

Siamo sempre stati dipendenti dalle nostre creazioni inorganiche. Dipendevamo dalla ruota, dalla leva, dal fuoco, dalle medicine…Sapiens lo ha sempre fatto. Ha trovato il modo di aumentare le sue capacità fisiche e computazionali per ottenere un vantaggio sulle altre specie. Ma oggi per la prima volta Sapiens ha l’impressione che dentro il suo telefonino ci siano tutte le informazioni disponibili al mondo, in un secondo. Basta volerlo, con un clic.

Questo può dare un senso illusorio di onniscienza e onnipotenza…

Come Sapiens, stiamo perdendo la capacità di ragionare davvero, di mettere in relazione. Abbiamo tutto lo scibile, ma non un’autentica capacità di connettere. Gli anni di formazione non dovrebbero servire a incamerare dati, ma per imparare a imparare.

La forma di queste protesi digitali persegue fini ben precisi, non necessariamente malvagi, ma sicuramente orientata da interessi di parte. Con quali conseguenze?

Uso un computer per calcolare l’orbita di un satellite in un’ora. Con la mia sola capacità di calcolo ci avrei messo due vite. Vista così, l’intelligenza artificiale è utile. Se serve a monitorare i miei acquisti o le mie preferenze politiche allora no. Ma attenzione: non è l’algoritmo a controllare le elezioni di un paese, il problema è chi crea lo crea e come lo usa. C’è sempre un essere umano dietro questa creazione. La macchina non si riproduce, non prova piacere né dolore. Non ha istinto di sopravvivenza, non attacca né si difende. Non proverà mai amore, rabbia, volontà di dominio. Questo può derivare solo dall’essere umani e vivi. Il problema delle conseguenze dipende sempre da chi ha i dati, come li analizza e a quali fini li usa.

 



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