Migranti, la costruzione di un contenitore organizzato che permetta di accogliere il dolore implicito nella complessa relazione d’aiuto tra l’individuo, il gruppo, l’istituzione deputata all’accoglienza e la sua organizzazione.
La relazione con migrante nasce sempre dalla capacità di immergersi nel flusso emotivo che la caratterizza, rimanendo “vivi” grazie agli strumenti di elaborazione psicoanalitica.
Non esiste ‘migrante’ senza un operatore che se ne occupi, così come non esiste un operatore senza un’organizzazione in grado di contenere le spinte emotive che si dispiegano nella relazione tra i due, all’interno di un contesto organizzativo. Un lavoro che richiede la profonda elaborazione della realtà emotiva da cui è abitata un’istituzione preposta ad accogliere. Attraverso l’esperienza realizzata in INMP di Roma (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà) viene descritto il processo di elaborazione delle difese in campo: individuo gruppo e istituzione intrecciati in dinamiche governate da meccanismi inconsci in attesa di essere pensati dunque, accolti ed elaborati. Bisogno di essere accolti per poter accogliere!
Nello scritto So-stare nel dolore: mediare, tradurre, patire, Maria Assunta Giannini descrive il processo di costruzione di un setting analitico istituzionale “senza lettino” che ha permesso di cogliere le peculiarità del ruolo, della funzione e delle competenze specifiche del mediatore transculturale in ambito sanitario (MTCS). Il lavoro di elaborazione ha consentito di attivare uno specifico progetto finalizzato all’elaborazione di conflitti intrapsichici e relazionali dell’MTCS. L’istituzione, grazie all’estensione di una mente psicoanalitica, ha potuto sviluppare il “tranfert sul metodo analitico” acquisendo la consapevolezza del bisogno di aiuto e favorendo la costruzione del setting dedicato all’elaborazione del disagio incarnato dal gruppo degli MTCS.
In un prossimo lavoro verrà descritto il metodo, analiticamente orientato, con cui la dott.ssa Giannini e la dott.ssa Cerqua hanno costruito e applicato il modello d’intervento per l’elaborazione delle dinamiche intrapsichiche dedicato agli MTCS (gruppi tipo Balint).
So-Stare nel dolore: mediare, tradurre, patire (a)
di Maria Assunta Giannini1
I Soldati
Si sta come d'autunno
sugli alberi
le foglie.
(Giuseppe Ungaretti)
Nel presente capitolo tratterò della sofferenza di chi direttamente prova dolore ma anche del dolore di chi si adopera per alleviare quello degli altri, nel tentativo di renderlo dicibile. Nello specifico, proverò ad approfondire la condizione emotiva che attraversa i mediatori transculturali che si occupano dell'accoglienza presso un servizio ambulatoriale territoriale al quale i migranti si rivolgono per ricevere assistenza sanitaria e nel quale i mediatori sono chiamati a svolgere una funzione di "crocevia" tra i bisogni del migrante e le innumerevoli risposte possibili. Cercherò, quindi, di soffermarmi sui destini della sofferenza che si snoda nell'inevitabile intreccio tra migrante e mediatore transculturale, provando a dar conto della complessità del lavoro di elaborazione del dolore, proponendo riflessioni sull'esperienza fatta dal 2015 al 2018 presso l'Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà - INMP2, dove si è resa necessaria la creazione di uno "spazio psichico istituzionale'" pensato per consentire una organizzazione in grado di farsi contenitore del dolore del migrante, di quello del mediatore e di quello derivante dalla loro interazione.
1Psicoanalista, Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI/IPA) - Dirigente Ufficio Formazione ed ECM- INMP.
2 Ente Vigilato del Ministero della Salute - Centro di riferimento della rete nazionale per le problematiche di assistenza in campo socio-sanitario e Centro nazionale per la mediazione transculturale in campo sanitario.
3 Ringrazio la Direttrice Generale, Dott.ssa Concetta Mirisola, per aver consentito l'elaborazione e la realizzazione dell'iniziativa che attesta l'impegno che ella profonde non solo per il riconoscimento del ruolo dei mediatori transculturali in ambito sanitario ma anche per l'attenzione che pone nel sostenere il delicato e gravoso compito di tutti gli operatori che, a vario titolo, favoriscono l'accoglienza e l'assistenza dei migranti afferenti all'ambulatorio, situato in Roma in Via delle Fratte di Trastevere 52.
Il binomio dolore-migrazione è ormai entrato nel lessico quotidiano ed è sempre più spesso esposto al rischio di inflazione emotiva per la sua sovraesposizione, al contempo, abbagliante, accecante e occludente. Come se, per dirla con Pontalis: "[...] il troppo pieno crea[sse]un vuoto" (1988, p. 246).
Si tratta di un ossimoro che ci impone una riflessione sulla dolorosa condizione connessa sia all'onda che crea il troppo pieno, con l'eccesso di effrazione disorganizzante, sia al risucchio di quell'onda che tutto porta via, lasciando nel vuoto oceanico un impensabile destino in cerca di una "sponda" organizzatrice, capace di fronteggiare sia le paure delle minacce esterne sia le angosce interne. Di questa "sponda organizzatrice" se ne sente il bisogno ogni volta che ci si accosta al fatto migratorio. La questione, infatti, è talmente perturbante che persino scrivere sull'argomento necessita di un faticoso lavoro di elaborazione che la scrittura impone per dar parola a quei vissuti emotivi in cerca di un luogo per essere pensati.
Il perturbante, quello "spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare [...] propriamente qualcosa in cui non ci si raccapezza" (Freud, 1919, pp. 82-83), è lì a testimoniare che la condizione del migrante ci è vicina e lontana, familiare e nascosta allo stesso tempo: trovata e non pensabile! La parola/scrittura, dunque, come tentativo per tenere in piedi un'impalcatura in grado di contrastare l'informe e l'orrido caos che impone il trauma migratorio e consentire l'elaborazione necessaria per uscire dall'impensabile e dal non comunicabile soffocamento che genera il terrore. Insomma, la parola/scrittura per tenere a mente che la negazione, "richiude le porte al riconoscimento della sofferenza" (Vargas, 2016, p. 347), rischiando di condurre l'impensabile o verso la "normalizzazione" o verso una letale rinuncia a pensare. Quindi, la parola/scrittura come sponda organizzatrice il cui approdo consente ai pensieri di essere pensati per dar forma alle macerie di quella effrazione traumatica e disorientante.
Io stessa, quando mi è stato chiesto di scrivere su questo argomento, mi sono sentita atterrita e attratta, al contempo: spaventata per quel che avrei dovuto emotivamente ripercorrere per entrare in contatto con il dolore impresso dallo sguardo dei migranti incontrati, ma consapevole della necessità di dovermi avvalere del "foglio-sponda" per organizzare un discorso sul "dolore in azione" nel lavoro con essi.
Il discorso, travolto dal quotidiano sentire, si è manifestato con pensieri frammentati in cerca di coesione e integrazione, ovvero di quella forza centripeta che attraverso la parola è in grado di dar forma al dolore e al pensiero che, altrimenti, rimangono nella sfera dell'ignoto, cioè incapaci di connettere il "sentire" con il "conoscere".
Lavorare con i migranti, come avremo modo di approfondire più avanti, amplifica ancor più la questione della parola. Essa non solo ripercorre longitudinalmente il tema del dolore e della sua dicibilità, ma apre una questione fondamentale anche rispetto alla sua traducibilità e alle condizioni necessarie affinché l'operazione del tradurre non si appiattisca sulla mera traduzione della parola in "cosa". Il confine, labile per definizione, rischia di essere messo in scacco se la funzione del "mediare" si "accontenta" della traduzione letterale del testo del migrante, facendo smarrire quel potenziale espresso nel concetto di bulding che, come ci ricorda Bertolani "è un movimento verso una forma [...] cioè la "formazione di sé attraverso l'alterità" (2015, p. 532). Se la parola della mediazione diventa "cosa" da tradurre, come vedremo in seguito, rischia di snaturare il valore stesso della mediazione che, invece, può e deve contribuire a garantire al migrante la possibilità di vedere accolto il bisogno urgente di essere compreso per non precipitare nel violento dolore dell'ennesima non comprensione.
"Un analista che ignori il proprio dolore non ha alcuna speranza di essere psicoanalista, come colui che ignori il piacere-psichico e fisico-non ha alcuna speranza di continuare ad esserlo." (Pontalis, 1988 p. 256).
Introdurre il tema del dolore connesso all'esperienza migratoria partendo dall'affermazione di Pontalis mi aiuta a riflettere sul valore che dobbiamo attribuire al lavoro di consapevolezza necessaria per cogliere la profondità del dolore della "traversata" che affrontano anche gli operatori che si "imbarcano" nelle vicende psichiche di quel fatto migratorio di cui diventano osservatori partecipi e protagonisti allo stesso tempo. Gli operatori si "sobbarcano" un dolore le cui origini e il cui destino passa attraverso vicissitudini interne tutte da decodificare. Operatori e migranti, entrambi, posti di fronte all'angoscia "originaria di impotenza che", [solo se], come ricorda Russo "può essere percepita da un Io sufficientemente differenziato viene usata allo scopo di formare un apparato per pensare e generare i pensieri" (Russo, 2006, p. 36), altrimenti rimane pura esperienza dell'orrido e della non esistenza. E, a quel punto, non si tratta più di sofferenza psichica "inerente la vita", ma si tratta di puro dolore connesso alla mancanza di continuità e integrità dell'Io, condizione che, come ci fa notare ancora Kaes, sopraggiunge "appena riprendiamo contatto con lo stato di impotenza primaria" (Kaes, 2012, p. 43).
Sentimento pervasivo di cui anche gli operatori rischiano di nutrirsi se non coltivano la capacità di farsi "tela e tempera" allo stesso tempo, se non coltivano la capacità di fungere da luogo di promozione della costruzione del proprio e altrui apparato per pensare.
Il migrante esposto all'oltraggiosa minaccia di perdita di sé e della speranza di soggettivarsi attraverso l'altro, infatti, viene assoggettato a quell'umana capacità di farsi testimone della "contagiosa angoscia" che, come dice Pontalis "è richiamo indiretto all'altro" (Pontalis, 1988, p. 249). L'altro che, dal canto suo, deve assumere su di sé la responsabilità di farsi garante dell'umano bisogno di sviluppare un senso di fiducia in oggetti buoni interni ed esterni, a dispetto di quella disperante esperienza di immersione nella perdita di sé. "Hallah non ti permetterebbe di maltrattarmi in questo modo" diceva, sotto le torture, al suo aguzzino un uomo di colore, sequestrato per essere venduto come schiavo. E l'altro: "tu non hai diritto di nominare Hallah ... lui è il mio Dio. La sua lingua è la mia e tu non sai quel che è scritto nei sacri testi. Tu non hai Dio!". È il racconto accolto da un mediatore culturale che testimonia la violenza espressa persino attraverso la privazione del diritto ad accedere alla sfera dell'illusione dell'esistenza di Dio. Di quel Dio che Freud dice essere "capace di compensare le manchevolezze e i mali della civiltà, di occuparsi delle sofferenze che gli uomini si infliggono reciprocamente nella vita in comune, di vigilare sull'attuazione delle norme civili cui gli uomini si attengono così malamente" (Freud, 1927, p. 448).
Vissuti che i migranti, in un continuo e sdrucciolevole transfer-imento di contenuti perturbanti, sottopongono agli operatori che vengono resi testimoni della inquietante pressione dell'orrido, infrangendo, a volte, anche la loro barriera parastimoli. Dunque, vissuti speculari e transitanti da un inconscio all'altro e che espongono gli stessi operatori al rischio di essere ingoiati dall'angoscia di smarrimento di sé, come "[...] scomparsa del rispondente umano alle domande su ciò che siamo e su ciò che diventiamo" (Kaes, 2012, p. 23).
La struttura nella quale ho avuto modo di fare esperienza della complessità del fatto migratorio è nota per il suo approccio al problema in chiave "transculturale" e "transdisciplinare". Si tratta di una struttura deputata all'assistenza sanitaria di migranti forzati, richiedenti protezione internazionale, vittime di tortura, vittime di tratta, minori non accompagnati, ecc., nei cui ambulatori operano medici, psicologi, infermieri, antropologi e un cospicuo numero di mediatori transculturali in ambito sanitario. Quotidianamente gli operatori interagiscono con soggetti poli-traumatizzati, non solo dalle vicissitudini legate alle violenze e alle torture subite, ma anche dai vissuti di estraniamento di sé in cui, spesso, non c'è più nemmeno spazio psichico per chiedere conto di se stesso, poiché, come ci ricorda Semi: "[...] il terrore blocca il pensiero" (2008, p. 673).
"Conosciuti non pensati ", infatti, sono i livelli di angoscia che gli stessi operatori vivono all'interno della struttura, sebbene, non consapevolmente messi in relazione alla sofferenza sollecitata dai migranti presi in carico. Le numerose e soggettive "teorie" della sofferenza e del disagio vissuti dagli operatori nel loro operare quotidiano possono prendere la forma di un pensiero recriminatorio e risarcitorio, come testimonianza di quella negazione di cui sono difensivamente intrisi gli stessi migranti. Oppure possono assumere le sembianze di una sequenza di comportamenti "normotici", compiacenti e imitativi, che possono celare fantasie inconsce onnipotenti, messe difensivamente in atto per schermarsi dal dolore siderale che il richiedente aiuto sollecita. Insomma, soluzioni difensive che possono orientare verso risposte "pratiche" o "facili", messe lì per "sorvolare" sulla responsabilità emotiva che esorta ad assumere su sé stessi il dolore e la sofferenza dis-umana e inenarrabile dei migranti.
I pazienti che afferiscono all'ambulatorio dell'Istituto hanno una storia personale e sociale altamente compromessa. Portano un malessere aspecifico, forse un "dis-essere", come direbbe Kaes, contrabbandato da una richiesta di intervento burocratico per una certificazione sanitaria da esibire ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Un "corpo-cosa" in cerca della tra-scrizione/in-scrizione di una storia utile per redigere un certificato già iscritto nei segni presenti su un corpo testimone dell'avvenuta effrazione traumatica; effrazione iscritta in un corpo in cerca di un'autorizzazione ad esistere!
Un corpo bisognoso di essere riconosciuto in quanto sede in cui si è consumato il "delitto" dell'attività psichica1.
Richiesta di una identità ancora incapace di accedere ai livelli di complessità connessi alle vicende psichiche implicate in ogni esperienza traumatica. Come se, anche per il richiedente aiuto fosse inconsciamente necessario "sorvolare" sul proprio dolore, spostando le richieste su bisogni "pratici" e "concreti", forse, più "facili" di quelli emotivi che, al contrario, necessiterebbero di una consapevole domanda di aiuto psicologico. Domanda, invece, tutta da costruire!
E, se, come ci ricorda De Micco, "la migrazione esercita il suo effetto più profondo sul quotidiano" (20 17a, p. 6), allora non possiamo non occuparci del quotidiano che impatta anche sugli operatori e sulla capacità di tenuta delle organizzazioni deputate ad occuparsi dei migranti. Si tratta, infatti, di riflettere su quali spazi possibili costruire per favorire il pensare in vece dell'agire; su quale organizzazione elaborare affinché essa possa essere in grado di farsi "roccia" per consentire alla psiche di trovare un proprio appoggio (cfr. Kaes, 1991, p. Il).
"Datemi un punto appoggio e vi solleverò il mondo!" diceva Archimede di Siracusa. Organizzazione, dunque, come punto di appoggio, come point de repère, per la creazione di uno spazio psichico capace di garantire al migrante la possibilità di costruire il legame con l'altro nel tentativo di ripercorrere la propria trama identitaria. Organizzazione capace di farsi carico, dunque, di quella condizione psichica, "in cui il migrante resta costantemente 'sospeso' anche per anni o per una vita intera, che ne logora giorno dopo giorno la struttura psichica e ne fragilizza la tenuta identitaria, costituendo quella condizione di traumatismo diffuso, tanto pervasivo quanto difficilmente rappresentabile, [e che] resta costantemente attivo come sotterranea erosione del tessuto quotidiano" (De Micco, 2017a, p. 6).
Erosione, direi, non solo del tessuto del migrante, ma anche di quello degli operatori. Perché, se è vero, come afferma De Micco parafrasando Winnicott, che "non c'è migrante senza operatore ", è anche vero che non può esserci operatore senza una organizzazione/istituzione di riferimento che non abbia la responsabilità di dover creare un contenitore psichico adeguato per contenere il dolore e le risorse per elaborarlo. Cioè, di un contenitore capace di farsi carico della catena emotiva che si snoda lungo l'asse migrante-operatore-organizzazione per scongiurare il rischio di collassare sotto la pressione corrosiva del dolore che circola e che si imprime nel clima di una organizzazione, con il rischio di mettere in scacco le "metacornici ", quali garanti "metasociali" e "metapsichici".
L'Istituzione e la sua organizzazione, quindi, dovrà essere in grado di farsi contenitore anche delle "manifestazioni di malessere che - come ci segnala Kaes - non si sviluppano automaticamente in espressioni psicopatologiche,
1 Richiamo al concetto di passività psichica di cui parla L. Ambrosiano in Pensare in tempo di guerra (2016, p. 574).
ma rivelano sicuramente sofferenze e disorganizzazioni significative" (2012, p. 24). Organizzazioni, quindi, capaci di "pensarsi" in funzione dell'idea che hanno dell'altro, straniero o autoctono che sia, dando prova della capacità di tenuta del dolore, facendosi "istituzione-sponda" su cui devono appoggiarsi gli operatori che, a loro volta, sono chiamati a far da sponda salvifica per quei migranti in attesa di incontrare l'Altro in grado di farsi rappresentante dell'intuibile ma non dicibile.
E, per questo, dobbiamo fare appello alle risorse costruttive di tutti i protagonisti del processo perché - come dice de Zulueta - "Le istituzioni hanno, come gli individui, difese psicologiche intrinseche per superare le angosce suscitate dalla natura del lavoro in cui sono specializzate" (1999, p. 155).
Se quanto è stato detto finora ha profondo valore per tutti gli operatori che si "accostano" al fatto migratorio, per i mediatori transculturali in ambito sanitario la questione è ancora più complessa poiché essi "non si accostano" al fatto migratorio, ne sono protagonisti! Essi stessi, infatti, hanno fatto esperienza di una "costa" su cui hanno dovuto faticosamente aggrapparsi, diventando testimoni del successo della traversata ma anche del fallimento del proprio passato. Sì, perché, uno dei prerequisiti richiesti per svolgere il ruolo di mediatore è il cosiddetto "vissuto migratorio", quale "supposta" competenza e garanzia della profonda comprensione dell'esperienza migratoria.
Tutte questioni che ho imparato a conoscere da quando ho cominciato ad occupami di formazione presso la summenzionata struttura sanitaria per la salute dei migranti. (...)."
Immagine: "Aegean Guernica" (2015) di Jovcho Savov (MOTA - Museum of Transitory Art)