Perdere tutto fuggendo dalla guerra, anche la spinta alla vita.
[Illustrazione di Hanane Kai]
Malattia della bella addormentata: è definita anche così la sindrome che colpisce bambini e adolescenti fuggiti dalla guerra e riparati in terre straniere. Uppgivenhetssyndrom in lingua svedese, ossia Sindrome da rassegnazione, è il sonno profondo simile alla catatonia che trattiene in stand by le giovani vite di sopravvissuti all’orrore.
Credo che Sopraffatti dalla vita, docufilm Netflix del 2019 (regia di Kristine Samuelson), ponendo il focus sulle conseguenze di guerre recenti dimenticate (in ex Iugoslavia, ex Unione Sovietica, Pakistan, Siria), sia un monito su quelle presenti, una testimonianza in presa diretta e un pugno alle nostre coscienze assuefatte. Occorre coraggio per mettere la lente d’ ingrandimento su ciò che non vorremmo mai vedere ovvero la condizione emotiva di annichilimento o di passività estrema in cui può collassare la mente di ragazzini privati di tutto, anche del desiderio di esistere. Il docufilm della Samuelson, evidenzia gli effetti della guerra su chi è scampato alla guerra e invita a riflettere sull’attualità: uno stuolo di bimbi e adolescenti in fuga costretti alla provvisorietà dell’esule. È un tragico ossimoro questa realtà fatta di madri e figli consegnati ad un’esistenza stabilmente provvisoria. I corpi muti delle bambine kosovare perse nella Sindrome da rassegnazione raccontano proprio lo stato di passività estrema in cui la mente può affondare per scollegarsi da realtà divenute intollerabili. Dopotutto, che senso potrebbe assumere l’esistenza di un ragazzino in fuga da panico e distruttività, sospeso tra incubi e sogni impossibili? Le parole suonano vuote o eccessive dinanzi a caregivers sgomenti e giovani corpi inerti, alimentati da sondini nutrizionali: “…completamente passivi, immobili, senza tono, ritirati, muti, incapaci di mangiare e bere… come se un’atmosfera da Pietà di Michelangelo li avvolgesse...” (Goran Bodegàrd, Acta Pediatrica, Riv. Medica, ’20).
La Sindrome da rassegnazione è come un buco nero in cui la vita si liquefà e inabissa, la massima espressione di passività difensiva comparsa già in Svezia Australia e Canada.
La guerra può cancellare tutto tranne il dolore inflitto alle sue vittime, un dolore vivo ma sordo-muto ed estraniante che rende arduo anche portare sostegno a chi lo ha dentro di sé. Quale rispecchiamento e quali risonanze sono possibili con chi ha incontrato la disumanità slatentizzata dalla guerra? Ci troviamo ad accostare vissuti psichici estremi informi e oscuri, scabrosi, ancora “afoni” e per questo confondenti. L’essere profugo comporta uno sconvolgimento, l’essere “gettato” nel mondo di ‘color che son sospesi’ a fluttuare tra presente distopico, passato cancellato e futuro inimmaginabile, consegnati alla provvisorietà o alla passività, figli del nulla.
È importante allora non perdere di vista che emozioni sconvolgenti possono sconvolgere e confondere anche chi le accosta porgendo soccorso. In particolare può risultare confusivo l’incontro inaspettato con le difese espresse attraverso differenti forme di passività, diretta o indiretta, illeggibili quando il nostro bisogno attivo di cura del dolore è inconsapevolmente idealizzato.
Se la ferita traumatica è ancora aperta, le difese dal dolore prevalgono rendendo quel dolore inaccessibile e la pressione del reale/concreto può trionfare rendendo prematuro l’accesso al simbolico attraverso lo strumentario analitico che ci appartiene. C’è sempre il rischio di offrire iniziative di cura con modalità intempestive in questi frangenti, per questo diventano centrali rêverie e capacità negativa (Bion) del terapeuta, vale a dire il predisporsi ad un ascolto ‘immaginativo’ non attivo. Ascoltare il dolore afono, comporta il poter soggiornare nell’impalpabile area delle emozioni mute che precedono pensieri e parole comunicabili, in attesa fiduciosa del varco che permetterà di cum-dividerle.