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“STILL LIFE. Ai confini tra il vivere e il morire” a cura di L. Preta. Recensione di A. Cordioli


“STILL LIFE. Ai confini tra il vivere e il morire” a cura di L. Preta. Recensione di A. Cordioli

Still life: una esplorazione potente, in cui tutto è personale e in comune.

Recensione di Anna Cordioli

“STILL LIFE. Ai confini tra il vivere e il morire” a cura di Lorena Preta, 2023, Mimesis Edizioni.

Con contributi di: Lorena Preta, Sarantis Thanopulos, Elena Molinari, Sudhir Kakar, Gohar Homayounpour, Andrea Baldassarro, Cosimo Schinaia, Brian Greene, Rosa Spagnolo, Silvia Ronchey, Alfredo Lombardozzi, Mariano Horenstein, Marco Francesconi, Daniela Scotto di Fasano, Nadia Fusini.

Un giorno il dono prezioso della vita cesserà” (Tagore, 1910)

Uno dei più ambiziosi compiti della psicoanalisi è quello di rendere vivibile la vita, che non per tutti assomiglia ad un dono. Ma, a differenza di altre discipline terapeutiche, il nostro compito non si esplica agendo sulla realtà o elargendo indicazioni e consigli su come migliorare questo o quel dettaglio del quotidiano.

Il metodo di cui si è dotata la Psicoanalisi ha il coraggio di incontrare l’umano al centro della sua natura e lì, offrire all’altro una presenza contenitiva e pensante. Non di meno, proprio attraverso la radicalità dell’assetto psicoanalitico, si consolida in noi la profonda consapevolezza che non a tutto si può offrire rimedio e che ci vuole rispetto di fronte alla magnitudo di alcuni misteri, su tutti la morte.

Freud, è risaputo, non era credente e si è avvicinato alla questione della morte, con la consapevolezza che, finito il suo transito terrestre, lui non ci sarebbe più stato. Non c’era un “al di là” a mitigare il mistero della finitezza umana né una promessa di reincarnazione. Anche per questa attitudine a guardare l’abisso con lucidità, taluni delatori hanno ritenuto che la Psicoanalisi avesse un che di nichilista, non cogliendo, però che solo chi accetta la natura finita della vita, può accompagnare l’umano quando vacilla. Troppo spesso, infatti, si dimentica che l’esplorazione della pulsione di morte non comporta uno sminuire lo sforzo vitale, ma semmai “rimuove il logoro scialle della banalità” (Tagore, 1938) per coglierne la meraviglia con più consistenza.

Per avvicinarmi a ciò che ho trovato leggendo “Still Life”, mi permetto una digressione personale. Perché, in questo libro, tutto è personale.

In un viaggio nella mia amata Sardegna, un giorno visitai le grotte di Su Mannau, vicino a Fluminimaggiore. Uno speleologo, Ubaldo Sanna, ci accompagnava nell’escursione. Ci mostrava le vele calcaree prodotte dalle stalattiti e diceva “Vedete gli ultimi 10 centimetri? Sono 1000 anni.” E scherzando indicava un tratto, vicinissimo alla fine della stalattite, che segnava i punti in cui era nato lui, suo nonno, Eleonora d’Arborea e così via. Erano quasi indistinguibili ad occhio nudo. Di fronte a quelle grandezze temporali, così poco misurabili con l’estensione di una vita umana, eravamo infinitamente piccoli, compressi assieme a miliardi di altre vite (di uomini, animali, vegetali, rocciose).

Poi giungemmo ad un laghetto sotterraneo e lo speleologo ci disse che se avessimo avuto l’equipaggiamento e la preparazione adatti, e ci fossimo fidati a passare per uno stretto canale semi inondato, avremmo infine potuto calarci in una camera amplissima. “Si scende appesi ad una corda, in verticale, come un ragnetto. Si scende così tanto da finire proprio nella pancia della terra. La grotta è così larga che la luce della torcia quasi non arriva a illuminare le pareti. Guardi in su e puoi vedere la corda a cui sei appeso ma, per il resto, il faro fa poco o niente. E allora, se si ha il coraggio di farlo, io consiglio di spegnere la torcia. Il nero è così nero che prende consistenza, non è più un colore, ti sembra di toccarlo. Ma soprattutto, quando spegni la luce, resti da solo con la tua mente, le tue paure e le tue bestie. Non ci sono bestie là sotto, tranne te. O trovi la pace o trovi il tormento, ma sei sempre tu. Poi si riaccende la pila, si torna da quelli che hanno tenuto in sicurezza la tua corda e si ritrova il mondo, con occhi nuovi”.

Le parole dello speleologo assomigliavano al lavoro che gli psicoanalisti sono chiamati a fare su loro stessi, prima di aiutare un altro essere umano: scendere dentro di sé, accettare di stare anche dove non si tocca e dove non si vede più nulla. Questo dispositivo, potentissimo, ci accompagna durante tutta la nostra vita, professionale (e personale), ma soprattutto dovrebbe poterci far fare esperienza di quanto sia esteso e sterminato l’inconscio, quanto ineffabile sia il mistero di “essere un soggetto” e quanto la nostra esistenza sia la tensione tra i pieni e i vuoti, la luce e la cecità, l’essere legati ai vivi e sentire i misteri connessi alla nostra mortalità. Questi non solo poli in opposizione ma sono un dialogo: “La vita la morte” come diceva Derrida (1975), “Two step entropico” come dice l’astrofisico Brian Greene (2020).

Quel giorno, uscita dalla grotta mi appuntai in un taccuino il discorso dello speleologo e poi lo lasciai scivolare nel sotterraneo dei ricordi, per anni. Talvolta riappare, più spesso non ci penso… proprio come si dovrebbe fare con la morte.

A risvegliare in me questa memoria è stata, però, la lettura del libro di cui parlo qui: “Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire”, a cura di Lorena Preta.

Il sottotitolo e la copertina mi avevano tratto in inganno. Pensavo che si trattasse di una dissertazione colta su quanto la vita fosse intrecciata con la morte. Avevo in mente “L’essere per la morte” di Heiddeger e tutti quei bellissimi discorsi che si fanno tra sé e sé con grande potenza ma che rischiano di apparire stantii e dejà vecù, quando si prova a farli assieme ad altri. Talvolta il linguaggio attorno a questo tema si fa misterico, altre volte iper-razionale, ma io più spesso ho la sensazione che “la morte” finisca per diventare un argomento come tanti, appiattito perché, fondamentalmente incomunicabile. Poiché la morte è la più ovvia delle cose umane, finisce per ammutolirci. E fanno sorridere coloro che pensano di dire qualcosa di importante e definitivo sulla questione.

Mi accorsi dunque che mi ero accostata al libro con lo spirito che avevo quel giorno in Sardegna, prima di incontrare lo speleologo. Di grotte ne avevo viste molte (mi piacciono i meandri) ma non tutte ti danno da pensare, alcune si assomigliano, e c’è il rischio che un’escursione produca un’esperienza esclusivamente estetica. Ero dunque interessata ma indolente. Similmente, avvicinandomi ad un libro che prometteva di esplorare il meandro del “vivere e morire”, lo confesso, temevo che mi sarei annoiata, leggendo cose che già conoscevo o che non mi facevano pensare. Ora posso dire che mi sbagliavo e che, come in ogni vero incontro, ho provato gratitudine e meraviglia.

Esattamente come per l’incontro con Sanna, anche qui la differenza la fanno coloro che parlano, mentre ci si accosta all’abisso. E si fa dunque l’esperienza che il primo modo per esplorare, con serietà e rispetto, questo impensabile mistero è farlo “assieme”. E affinché ciò che ci si scambia, non si limiti a sciorinare eleganti erudizioni, serve che ciascuno ci metta qualcosa di proprio, svelando senza vanità il desiderio e la domanda che lo hanno portato fin lì. E è questo che ho trovato in “Still Life”.

Questo libro, un po’ come una cordata di speleologi, è composta da un gruppo di psicoanalisti, saggisti e scienziati che a lungo si sono confrontati tra di loro, trovando un modo per dirsi, e dire, qualcosa di personale circa questo tema. Con “Personale” non intendo solo accadimenti biografici ma anche lo svelamento delle rispettive sensibilità.

  Il dialogo è nato all’interno del gruppo “Geografie della psicoanalisi” dell’IPA, tra colleghi analisti, di varie parti del mondo, che si confrontano ciascuno parlando attraverso la propria cultura. Ne è poi nata una giornata di studio che si è svolta a Roma nel 2022, in cui il dialogo si è aperto e si è ulteriormente arricchito. Parte di questo viaggio comune è contenuto in “Still Life” e si sente vibrare, in sottofondo, il legame tra le persone. Assieme, legati, collegati, in una rete di pensieri nati dal confronto, undici persone si sono calate ciascuna in una grotta, sostenuti da qualcuno in particolare o anche da tutti e quindici i membri dell’avventura.

Parlando con la curatrice della mia impressione di una eccezionalità del lavoro di gruppo, Lorena Preta stessa aveva commentato: “E’ veramente raro sentire che un pensiero trasmigra con tanta intensità e facilità da una formula disciplinare ad un’altra, senza entrare in contrapposizione ma aggiungendo, aumentando, espandendo“.

I saggi contenuti nel libro sono potenti e intimi. Ogni autore si è cimentato con un argomento che lo ha aiutato (e aiuta il lettore) a riflettere sull’intreccio tra vita e morte.

Che ci si soffermi davanti ad un quadro dipinto poco prima del suicidio del suo autore o che si rifletta sulla rivolta delle donne in Iran; che si ascoltino le poesie di Tagore risvegliato dal coma o che si rilegga il testo freudiano; che si pensi ai desaparecisos o che ci si possa trovare al capezzale di Hillman intento a vivere; Che si pensi al contatto tra parti vive e morte nel sé o che si rintraccino le immagini che l’uomo ha prodotto per essere di fronte alla morte; ma soprattutto, che ci si immerga nel momento in cui l’universo finirà in polvere e poi si finisca a parlarne con meraviglia; Ho sentito con forza quanto, ciò che ho trovato in Still life, nascesse dallo sforzo di stare sospesi dentro a quel buio, ancora vivi.

“Still Life” si traduce in italiano con “natura morta” e a noi, come ricorda Horenstein, tocca delle due polarità quella più scura. In inglese il centro dell’espressione è la vita, nelle lingue neolatine è la morte.

La bellezza di questo libro è di oscillare veramente, sempre, tra questi due vertici, regalandoci (e quello sì è davvero un dono!) l’impressione forte di quante moltitudini ci appaiano quando si ha il coraggio di scendere nei meandri.

Anche se consigliare un libro è una faccenda che si dovrebbe limitare all’incontro tra due persone che si conoscono molto bene e non ha uguale valore se fatto urbis et orbis, mi permetto di consigliare questo libro a chi pratica la psicoanalisi e la psicoterapia psicoanalitica.

Come dicevo, la psicoanalisi non si traduce in consigli o prescrizioni, poiché risalendo dalle profondità non si riemergerà con in mano un oggetto che cambi la natura del cosmo. Altrettanto, nessuno dei colleghi, risalendo da queste esplorazioni ha trovato la pietra filosofale, l’antidoto alla morte o all’angoscia dell’essere morituri. Però, leggendoli, se ne trae il piacere di essere stati assieme, anche se in meandri temibili e con una prospettiva di morte certa. Attraverso la vita, prima ancora che la morte, non si dovrebbe mai andare soli, senza la compagnia di qualcuno che comprende e condivide l’impresa.

Bibliografia

Derrida J., 2019, La vita la morte. Seminario 1975-76, Jaca Book, Milano 2021.

Greene B., 2020, Fino alla fine del tempo. Mente, materia e ricerca del significato in un universo in evoluzione, Einaudi, Torino 2020

I.P.A. “Geographies of Psychoananlysis”, https://www.ipa.world/IPA/en/Psychoanalysis/Geographies_Podcast.aspx

Tagore R., 1910, Gitanjali, Penguin, Delhi, 2011.

Tagore R., 1938, Prantik, Writers workshop, Calcutta, 2023.

 

 



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